Des hommes et des dieux: il realismo e la bellezza
di Fabrizio Bajec

Di recente, nelle sale italiane è arrivato l’ultimo lavoro di Xavier Beauvois, orribilmente tradotto come Uomini di Dio. Si sa che da noi la traduzione dei film francesi – a differenza di quelli angloamericani – è solitamente di pessima fattura (basti ricordare gli scempi su Godard e Truffaut, già negli anni ’60). Qui è tanto più grave perché il titolo assume una valenza confessionale, assente nell’originale, più pagano e polisemico: Uomini e dei, come a descrivere un luogo dove si ha il coraggio di essere uomini e chiamare il Creatore in modi diversi.
Il monastero di Tibhirine era immerso in un tale contesto, su un altopiano dell’Algeria, in quei terribili anni ’90, tra i linciaggi degli estremisti islamici, e sotto lo sguardo  impotente delle autorità e dell’esercito nazionale. Ma dall’altra parte del mare, anche il governo francese, diplomaticamente, restava a guardare il sacrificio dei sette religiosi.
Perciò questa è anche la storia del rapimento, che nella notte tra il 26 e 27 marzo 1996 tolse il fiato a due paesi, e sul quale sono scorse molte parole e libri di inchiesta.
Il fatto può sintetizzate una  complessità storica, e simboleggiare l’estrema ferita di un conflitto coloniale.
Non so se il doppiaggio renda giustizia all’eccellente prova degli attori; per lo meno dal trailer sembra che i canti dei monaci siano rimasti in originale.
Il rigore e l’austerità della regia fanno pensare alle migliori prove di Maurice Pialat (Sotto il sole di Satana), di Alain Cavalier, e prima ancora di Bresson (Diario di un curato di campagna). È da notare che i tre registi erano notoriamente miscredenti e asciuttissimi, come lo è qui  la messa in scena di Beauvois. Pochi elementi di decoro nella cappella. I crocefissi non sono centrali, ma sempre laterali e piccoli. In mezzo, c’è solo una candela e un altare sgombro. All’autore interessa meno l’aspetto rituale. Questa Cristianità non somiglia alla Chiesa di oggi, è quasi paleocristiana, o forse è la Chiesa come dovrebbe essere. Ispirata, intelligente (rileggiamo Thomas Merton), coraggiosa, e fatta essenzialmente di uomini integri.
Così nel film, vediamo dei volti in primo piano, su cui passano tutti i drammi e le piccole gioie condivisibili nelle ore ripetitive di lavoro, studio e preghiera.
Dalla prima inquadratura, seguiamo il più vecchio, Amédée, rimasto indietro, la cui lentezza lo salverà in extremis dai terroristi. Ancora non lo sappiamo, ma Beauvois, ci mostra di spalle un uomo insieme al suo destino.
È questa umanità che cattura il pubblico, riempie i cinema, fa piombare gli incassi del film  alle stelle, come non era più successo dopo Il grande silenzio (documentario sui monaci certosini). I critici erano commossi a Cannes, avevano riconosciuto una storia che la gente ha bisogno di guardare, per ritrovare un po’ di speranza, qualcosa di essenziale da portarsi a casa. Così suonavano i commenti degli spettatori. Come si spiega altrimenti il tutto esaurito che dura da settimane, per un film d’autore, di 120 minuti, i cui protagonisti sono sette cistercensi?
Vi è forse una leggera indulgenza alla morale di fondo (un dettaglio di una carta geografia, in secondo piano, riporta la scritta “Atlante del mondo solido”, e i paesaggi mozzafiato, in cui l’abate si perde per pregare, sono di sostegno e dimostrano una certa consapevolezza del regista. Ma si perdona qualche sbavatura retorica, se poi alcune scene madri contengono parole cariche di senso.
Si veda, ad esempio, la risposta dell’abate a un terrorista che lo minaccia dicendogli che non ha scelta. Il monaco risponde di sì: “Posso ancora scegliere”. I trappisti possono scegliere di partire, tornare in Francia, per la propria sicurezza, oppure morire ed espletare la loro missione, se la vita l’hanno già regalata, ordinandosi anni prima.
Vi è un tema ricorrente nella produzione di Beauvois (dal primo lungometraggio, Nord, al secondo Ricorda che devi morire e al Piccolo luogotenente): è il martirio. Ma in questa storia, i sette monaci non vogliono passare per eroi. Solo finire ciò che hanno iniziato prendendo i voti. La popolazione locale li reclama, li ama, e i trappisti partecipano alla vita del villaggio, uscendo in borghese, intervenendo alle festività islamiche e ascoltando le parole del Corano. Lo conoscono, lo studiano, per meglio capire quella gente, e l’abate ne cita anche dei passi nelle sue lettere, e ai terroristi.
Eppure non si è mai tentati – lungo la proiezione – di incasellare i buoni cristiani e i cattivi islamici. È sempre il personaggio interpretato dall’ottimo Lambert Wilson a ricordarci che non c’è crimine più grande di quello commesso in nome di Dio.
E non vengono in mente solo gli attentati di Al Qaeda, ma anche le Crociate, l’evangelizzazione violenta perpetrata nei secoli, e perché no, gli atti pedofili riportati dalle ultime cronache.
Il film di Beauvois, come già In memoria di me, di Saverio Costanzo, è un omaggio all’impegno civile. Non è un film prettamente religioso. Salvo poi avere il coraggio di mostrare una delle più forti dichiarazioni d’amore mai filmata. Coraggiosa quanto la bestemmia di Kim Rossi Stuart nel suo primo film da regista. E forse ancora più scandalosa di quella, inversamente, perché non si era mai visto uomo, nell’intimità della sua cella, rivolgersi con tanta frontalità al Dio in  cui crede.
Questo film è fatto di momenti così, di pura impronta realista, quella che Beauvois ha scelto negli anni, da buon discepolo di André Techiné.
Sembra non succeda niente di straordinario tra quelle mura – mentre fuori ci si uccide –, invece i sette monaci non fanno che aggregarsi, isolarsi quando ne hanno bisogno, e celebrare la vita quotidiana in tutta la sua semplice bellezza.