Je ne regrette rien
di Luca Alvino

Vi è mai capitato di fare confusione fra il sogno e la veglia? Di non riuscire a comprendere se ciò che state vivendo sia un sogno o un’esperienza reale? O di non vedere l’ora che arrivi la notte per sognare, andando a dormire con la stessa curiosità con cui si va al cinema? Di arrivare a ritenere la lievità onirica preferibile all’esistenza costretta del mondo reale? Attenti: a qualcuno è capitato di rimanere intrappolato nei propri sogni, e là sotto le ore possono diventare anni; si perde la cognizione dell’irrealtà, ed è facile rimanere ostaggi del non-essere, alla mercé del rimpianto e della desolazione.

Il sogno, così come l’arte o il gioco, costituisce un sofisticato processo di simulazione fondamentale per elaborare strategie conoscitive in grado di metabolizzare l’esperienza, creando quel cortocircuito altrimenti impossibile tra le regioni oscure e inaccessibili del subconscio e quelle troppo luminose della consapevolezza e della razionalità.

Inception, l’ultimo film di Christopher Nolan, si colloca in quel filone della fantascienza nel quale l’esperienza simulata contende al mondo reale il privilegio dell’autenticità, e che negli ultimi due decenni ha declinato il paradigma della simulazione secondo un cospicuo numero di varianti: dalla realtà virtuale del Tagliaerbe e di eXistenZ alla fiction televisiva di The Truman Show; dal viaggio nel tempo dell’Esercito delle dodici scimmie alla realtà digitale di Matrix; dalla manipolazione della memoria di Paycheck all’alterazione del passato di The Butterfly Effect; dal coma criogenico di Vanilla Sky agli androidi iper-tecnologici del Mondo dei replicanti e di Avatar.

Dom Cobb (il protagonista interpretato da Leonardo Di Caprio) è un estrattore di pensieri, un ladro altamente specializzato che, utilizzando la tecnica del «sogno condiviso», è in grado di penetrare nell’immaginario onirico delle persone allo scopo di rubare dalla loro mente importanti segreti industriali. Saito, un ricchissimo uomo d’affari giapponese, gli commissiona l’operazione inversa rispetto all’estrazione: un innesto. Anziché sottrarre un pensiero, egli deve innestare un’idea nuova nella mente di un giovane ereditiere, condizionandolo nella decisione di dividere l’impero economico del padre dopo la sua morte. Cobb – latitante dagli Stati Uniti perché accusato dell’omicidio della propria moglie – accetta la proposta nonostante la difficoltà dell’impresa, in quanto Saito gli promette di aiutarlo a tornare a casa per rivedere i propri figli. Per realizzare l’ardimentoso progetto – e per eludere le difese oniriche di un subconscio predisposto a combattere l’invasione – Cobb elabora una strategia complessa, che gli richiederà la predisposizione di un sogno articolato in ben tre livelli (un sogno nel sogno di un sogno).

La tecnologia del sogno condiviso nasce in ambito militare. I soldati hanno bisogno di un ambiente in cui ci si possa esercitare nel combattimento senza riportare danni fisici permanenti, e il sogno consente in tal senso la possibilità di effettuare un tirocinio efficace garantendo l’incolumità. Nel sogno – come in generale in ogni ambiente simulato – le scelte non sono mai definitive, e le conseguenze degli errori sono sempre rimediabili. Nel mondo della simulazione vige un principio di immunità, in forza del quale anche il male peggiore – la morte – non ha altre conseguenze se non un brusco ritorno nella dimensione della veglia. Ma l’eccessiva confidenza con i benefici della reversibilità rischiano di viziare pericolosamente chi fa del sogno un lavoro (o un rifugio), chi lo assume a pretesto per non affrontare l’intollerabile fatalità della consumazione, ovvero la prerogativa del mondo reale più fatalmente minacciosa e difficile da accettare. Lo sa bene Cobb, la cui moglie Mal (impersonata da un’intensa Marion Cotillard, Oscar e Golden Globe nel 2008 per l’interpretazione della cantante Edith Piaf ne La vie en rose) è caduta nell’equivoco di confondere il mondo reale con il sogno, preferendo una rassicurante esistenza sospesa nell’indeterminatezza alla traumatica e fragile imperfezione della caducità. Ma Cobb sa anche che procrastinare una scelta non rappresenta mai una soluzione. Il rischio è di rendersi conto troppo tardi di aver rinunciato nella propria vita alla pienezza, di aver sciupato tutte le occasioni di felicità, per distrazione o per arroganza, e ritrovarsi al termine della propria esistenza come «un vecchio pieno di rimpianti, che aspetta la morte da solo». Non a caso il segnale che nel film avvisa i sognatori dell’imminenza del risveglio è dato dalle note di Non, je ne regrette rien (letteralmente «no, non rimpiango nulla»), una canzone resa celebre negli anni sessanta da Édith Piaf (sì, ancora lei). Il rimpianto altro non è che la malinconica attitudine di chi nella propria vita ha rinunciato a scegliere, illudendosi in tal modo di poter differire la naturale consumazione dell’esistenza. Per risvegliarsi dal sonno, dunque, per tornare alla realtà e prendere nuovamente possesso del destino, per assumersi la responsabilità di incarnare il proprio ruolo affrontando consapevolmente le conseguenze delle proprie scelte – giuste o sbagliate che siano –, c’è dunque bisogno di abbandonare ogni paura, e soprattutto la paura del rimpianto. Chi sceglie accetta la sfida di vivere nel tempo, non teme di incanalarsi nei viluppi del divenire, ha compreso che la conservazione rappresenta un’illusione dissennata e pericolosa e che il senso abita nella consumazione. Rifugiarsi nella potenzialità, costruire il proprio nido nell’accattivante nucleo dell’inespressione, anestetizzati dalla dolce ninnananna delle possibilità, significa rimanere intrappolati nelle pastoie della lusinga, disprezzare il gusto fragrante dell’esperienza, disertare vigliaccamente il campo di battaglia, scendere in corsa dal treno della storia.

Il sogno condiviso non può essere affrontato con leggerezza. Prima di intraprendere l’avventura onirica, è bene assicurarsi di avere a disposizione tutti i mezzi necessari per riuscire a tornare indietro dalla spedizione. È opportuno munirsi di un «totem», un piccolo oggetto da portare sempre in tasca, del quale si conosca esattamente il peso o una peculiarità dell’equilibrio, come una trottola o un dado truccato. Quando ti capiterà di dubitare, potrai verificare se il totem risponde nel modo atteso alle consuete dinamiche di movimento (la trottola non può girare all’infinito, il dado truccato deve far uscire sempre lo stesso numero). In caso contrario, fai attenzione: ti trovi nel sogno di qualcun altro!

Per tornare indietro ci sono varie possibilità. C’è il sistema drastico, la morte: qualcuno ti spara e muori, il sogno finisce e torni in un baleno nel mondo reale. C’è il sistema standard – meno traumatico, più procedurale –, il cosiddetto «calcio»: un complice rimane sveglio accanto al sognatore e al termine stabilito gli provoca uno sbilanciamento, procurandogli quella sensazione di cadere che lo sveglia di soprassalto, ristabilendo il primato della realtà attraverso la brutale tirannia della legge fisica.

Ma quando non c’è più nessuno ad attenderti dall’altra parte, e hai ormai dimenticato di vivere in un mondo che non è reale (per convenienza, per rassegnazione, o per l’oblio che sempre incombe minaccioso sulla mortalità), l’unica possibilità che ti rimane per svegliarti è compiere un atto di fede: rinunciare all’indeterminatezza del sogno, e credere che la consumazione di una scelta non corrisponda alla spietata rinuncia all’infinità; percepire fino in fondo che nella consunzione può addensarsi un senso profondo, e nell’assunzione di responsabilità una bellezza insospettata.

Complessivamente Inception è un film assai ben costruito, con una sceneggiatura curata nei dettagli più ossessivi e una regia attenta e brillante, particolarmente nelle scene d’azione. Assai efficaci alcune intuizioni, come l’introiezione della sfera della simulazione all’interno del subconscio, nel cuore dell’attività onirica; o come la dilatazione temporale che cresce in maniera esponenziale proporzionalmente ai livelli del sogno (una settimana al primo livello corrisponde a sei mesi nel secondo e a dieci anni nel terzo); o la funzione simbolica del «totem», al tempo stesso strumento per recuperare un rapporto con la realtà e insieme emblema razionalistico che ostacola l’atto di fede necessario a tale recupero. Non convince invece la pretesa di esprimere le regole che dettano l’attività onirica con una pleonastica precisione matematica (anche gli scenari dei sogni ricordano piuttosto il nitore cibernetico di un programma di Matrix che un’atmosfera genuinamente onirica). E se il meccanismo di innesco dei tre livelli di sogno in maniera rigidamente concentrica appare convincente, il percorso di ritorno in rigoroso ordine inverso (dal livello più basso verso il superiore), seppure ottenuto con un buon livello di spettacolarità, si rivela troppo pedantemente deterministico. Tra i pochissimi rimpianti, uscendo dalla sala.