Ferretti, Stalin e Berlusconi
di Luca Negri

Quando Giovanni Lindo Ferretti diede alle stampe Reduce per render pubblico il suo ritorno al cattolicesimo dopo anni di accasamento a sinistra, il noto critico letterario Andrea Cortellessa (conversando informalmente con sottoscritto ed amici) fornì la sua opinione: il passo da Stalin a Ratzinger è breve. Erede dei fautori del “cordone sanitario” da erigere intorno alla cultura di destra, il critico intendeva smascherare un cantore appenninico mai “sincero democratico” ed affetto dal cronico bisogno di credere nell’Uomo Forte, nell’uomo della Provvidenza, nel tiranno. Un’opzione totalitaria ritmata e cantata negli ‘80 con il “punk filosovietico” e nell’odierna degenerazione oscurantista con il Te Deum. Allora, era il 2006, Ferretti aveva osato mettere la croce solo sul partito di Casini; ora che le sue preferenze vanno a Berlusconi ed alla Lega, il critico letterario ed i vecchi estimatori traditi avran trovato conferma ulteriore alla tesi. Dal dittatore georgiano a quello brianzolo e al capopopolo padano il passo sembrerà loro ancor più breve. Ma Ferretti è veramente stato stalinista? Scrisse un articolo per “l’Unità”, una convinta dichiarazione di voto per il Pci in vista delle politiche dell’87. Ed è in quelle righe che spunta un elogio del Baffone: “Anche Stalin ha nel mio cuore un posto alto. Non è sempre tempo di buoni sentimenti, purtroppo”. Più o meno ripeté lo stesso concetto quando la Cgil lo invitò a parlare dal palco del Primo Maggio a lavoratori torinesi forse un po’ confusi da quell’improvviso ripiombare dall’epoca craxiana a quella della Terza Internazionale. Ma allora ha ragione Cortellessa? Ferretti è stalinista? A ben considerare, no; la vicenda è più complicata. Probabilmente chi non accetta il Ferretti neocon aveva capito poco già quando lo ascoltava urlare “Voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia, voglio un piano quinquennale, la stabilità!”. Era la voce dei Cccp, che non si dichiararono filocomunisti ma bensì filosovietici. La loro attrazione per l’Urss era estetica più che politica, era “ostalgie” in anticipo, prima della caduta del Muro. “Fedeli alla linea, anche quando non c’è”, faceva un altro loro inno. Accoglievano le ultime suggestioni della civiltà del “socialismo reale” ormai congelata, distante dalla modernità ed ancora in possesso di un residuo senso del sacro che trovava sfogo nella religione civile marxista-leninista. L’Urss era per loro un’ultima resistenza prima della resa definitiva alla secolarizzazione, ad un destino di consumo e nichilismo. Sull’”Unità” Ferretti, non elogiava il totalitarismo, chiedeva solamente al partito di non fare abiura dei propri simboli, di non adeguarsi all’”impossibilità tutta moderna di avere anche solo uno straccio di mitologia”. Un sentimento non troppo lontano da quello di Pasolini, costante riferimento di Ferretti, che aderiva ad un Pci vagheggiato come grande chiesa eretica più vicina ai diseredati. Eppure quando i terminali cultori, più o meno stalinisti, della mitologia del falce&martello scelsero la sdegnata scissione dal Pds per rifondare il comunismo, lui non li seguì. Nel decennio seguente votò i progressisti di Occhetto e poi di D’Alema che lodò con queste parole: “un politico illuminista, e l’idea di avere un uomo così alla guida del governo mi sembra già tanto”. Negli anni ’90 le sue canzoni con il Consorzio Suonatori Indipendenti sulla Resistenza e sul partigiano “Monaco Ubbidiente” Dossetti erano nuovi inni antifascisti per i cori di un pubblico quasi totalmente schierato a sinistra. Sulle orme del vecchio e venerabile monaco inventore del cattocomunismo e padrino dell’Ulivo, individuava il principale avversario in Berlusconi che portava i neofascisti al governo e minacciava l’intoccabile Costituzione benedetta dal sangue della lotta partigiana. Cosa ancor più grave, Sua Emittenza pareva un incubo del tecno-fascismo pasoliniano, uno scristianizzatore edonista dell’Italia, la manifesta opposizione all’austerità di cui fu fautore inascoltato Berlinguer. Sul palco Ferretti era un Dossetti punkrock, cantava spiritato e biblico “Maledirai la Fininvest!”. Ai seguaci più suggestionabili sembrò poi coincidenza significativa quella fra la grave infezione intestinale che quasi lo uccise nel ’94 e la prima vittoria del Polo proprio negli stessi giorni. Quindi, ora, Ferretti, abbandonato ogni illuminismo, dà il suo voto al tiranno di Arcore ed al Caroccio perché vuole l’Uomo Forte? No, è stato molto chiaro. Se l’alterità nei confronti del mondo di Berlusconi permane (lo ha scritto su “Il Foglio”: “E’ l’impatto estetico che mi rende alieno il Cavaliere”), il sentimento per lui ha stranamente qualcosa in comune con quello coltivato per Benedetto XVI. Sono stati i miscredenti e non i preti a farlo tornare cattolico apostolico è sarà anche merito della sinistra laicista, radicale, giacobina e “cattolica adulta” se ora si schiera pubblicamente con il centrodestra. C’è forse un luogo in cui Ferretti può dirsi orgogliosamente “non sincero democratico”, ed è la chiesa. Lì l’”uomo arcaico”, come ama definirsi, accetta l’aristocrazia sacerdotale, riflesso in terra della gerarchia celeste nella quale, con scandalo di Cortellessa e compagni, s’ostina a credere.