Cinema come poesia, di Tommaso Pomilio

Tommaso Pomilio, Cinema come poesia. Capitoli sui Bordi di un’Immagine, Editrice Zona, 2010, 130 pp., 13 €

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PREMESSA di Tommaso Pomilio

“Non si può fare cinema col cinema, poesia con la poesia, pittura con la pittura”, amava dire Carmelo Bene, echeggiando una pagina landolfiana di Rien va. “Bisogna sempre fare altro”. Se un’arte (se ha compiuta credibilità di arte) di continuo ci appare protesa sul suo oltre, sul suo impuro – su quel che è altro insomma da sé, così come su quello che, dentro se stessa, è ancora e sempre altro, – ciò è forse perché nessuna arte, nello spingersi verso il vivo nucleo del linguaggio o strumento che la rende possibile, può fare a meno di provare a estinguerlo, quel linguaggio.

Neutralizzare le impalcature del “codice” di partenza, il sistema adottato (che, nelle arti verbali, coincide con la Lingua stessa), per trasmettere, quasi mesmerizzare, altro attraverso le medesime ristrettezze di quel “codice”, è la sfida u-topica che l’arte a partire dal Moderno non si stanca di lanciare a se stessa. Onde (provare ad) approdare a una manifestazione (a una concretezza solida di Oggetto), travalicando le proprie modalità rappresentative; uscendo dal confine del suo stesso corpo. Alchimie du verbe. – È in questo senso, che nessuna forma artistica, che non sia decorativa, veramente de-scrive, così come nessuna mai davvero ripresenta; piuttosto, nello scrivere (atto materico, incisione sul vivo), essa rende presente: lascia che la materia emerga, nella sua ossessione lirica (come volevano i futuristi), nella sua sostanza lirica (come nel Surrealismo ugualmente).

In questo, il codice non basta più, non basta mai; “ogni cosa per rifulgere e per regnare ha bisogno di una mediazione” (è Landolfi stesso, stavolta, a parlare): soprattutto nel senso, che ha bisogno di trasmutare da un medium (da un linguaggio) a un altro medium (a un altro linguaggio). Trovare corridoi per passare di stato in stato, sempre più accosto all’incandescenza della cosa, lì dove sembra essere la materia stessa a parlare o la sua essenza (Artaud).

Bisogna sempre fare Altro.

Questo libro tenta dunque un avvicinamento a quel nodo sempre critico o forse persino indecidibile che è l’intreccio, fatale intreccio, di cinema e letteratura. Vi si accosta, certo, nel considerare i modi certo svariatissimi di rispecchiamento/parallelismo o di collaborazione tra i due mezzi: è quanto avviene nella sua prima parte, pur sinteticamente e nella consapevolezza di quanto siano, i due mezzi, l’uno all’altro irriducibili, incomparabili, proprio perché attivano campi percettivi (o se vogliamo atti di fruizione) radicalmente divaricati. – Ma altro ancora è soprattutto il nodo. Approssimarsi a una interzona cine/letteraria, rivela piuttosto le condizioni di un sincretismo rinnovato diversamente ogni volta; rivela la temperatura della metamorfosi, che ogni produzione estetica avveratasi nel regime fluido di un contatto (anche astratto, anche del tutto metaforico) fra mezzi e alfabeti differenti, non può fare a meno di sprigionare: e se non può, è proprio per quella tensione artistica di base, tensione alchemica a “fare” o divenire costantemente altro.

Nel segno e nel fuoco della poesia, così aperto e astratto, così sfuggente e molteplice o, di nuovo, eventuale/indecidibile (proprio perché campo privilegiato, nel Moderno, di quell’alchimia fondamentale di cui ho detto – azzerarsi della lingua per forza stessa di linguaggio, fino al concreto attingimento d’una sostanza ancora metamorfica), un cinema non ha smesso di scoprire immagini che travalicassero le cristallizzazioni storiche delle forme/funzioni cinematografiche. Ha dato vita a soggetti estetici irripetibili, inclassificabili: defunzionalizzando lo spaziotempo della rappresentazione, scavalcando la finzione, la mimesi, per giungere al pulsare ipnotico dell’oggetto stesso; allargando (anche all’interno di progetti dichiarati narrativi) forme ritmiche di una temporalità poecinematica – nell’aprire e spezzare, direttamente nella recisione della retina (Buñuel), uno spingere multiforme di figure. E in tutto ciò infine, attraverso e contro se stesso, s’è pensato altro. È a questa storia che alludono i capitoli di un libro da continuarsi.

La quarta di copertina del volume:

Attraverso una serie molteplice e suggestiva di prospettive e la presentazione di una polifonia mobile e vasta di casi, questo libro entra nel vivo di uno dei nodi più incandescenti della prassi filmica e dello stesso pensiero sinestetico che sovrintende ad essa. La questione, vale a dire, di una dialettica specularità delle forme cinematiche nei confronti di quelle letterarie, e più in particolare poetiche. Un rapporto in cui, nell’assumere i modi e le tensioni del linguaggio altro, un linguaggio (quello filmico, ma non meno, quello letterario) giunge a riconoscersi scoprendo la propria stessa alterità. Attingendo a quel fuoco metamorfico, che lo spinge oltre se stesso per lasciar spazio alla sua materia di visione. Fino a dar vita a individui estetici dotati di un’unicità sempre nuova, spesso “inclassificabili” ma sempre in dialogo gli uni con gli altri, quasi una comunità eterogenea e, per questo, tanto più dinamica. Oggetti che mirano a instaurare condizioni sempre nuove e decentranti del vedere: reinverando ogni volta quel peculiare, mutante, cognitivo sincretismo, travalicante i generi, e capace di azzerare/riplasmare i linguaggi (in cui si deposita) giusto per forza e materialità di linguaggio, quella immagine aperta e da perimetrare ogni volta di nuovo, a cui si dà il nome concreto di “poesia”.

Scarica il trailer del lbiro, contenente questo testo e non solo: http://www.editricezona.it/pdf%20per%20la%20rete/CinemaComePoesiaShort.pdf