Vitaliano Trevisan, Tristissimi giardini
di Giorgio Falco

A metà degli anni ’70, leggevo il quotidiano quando mio padre ritornava a casa, dopo il lavoro. Mi soffermavo sulle piccole inserzioni immobiliari di Milano e provincia. A otto anni vivevo il territorio urbano e suburbano come il luogo dell’inatteso. Immaginavo possibilità di vita fuori dall’appartamento. Leggevo inserzioni tipo Il tuo prossimo vicino di casa potrebbe essere un pioppo. Vivevo il mio momento narrativo attraverso l’urbanizzazione del capitale, ignoravo che la coscienza di classe era già stata sconfitta anche grazie alla dispersione residenziale, alla rasatura di cento metri quadrati di giardino e alla distanza, a volte notevole, tra l’abitazione e il luogo di lavoro. Ero euforico e turbato, sembrava ci fosse qualcosa di inquietante in quelle teoriche infinite possibilità abitative, spacciate per opportunità. Benché di fronte al condominio ci fosse un terreno edificabile, il pianeta non pareva così grande da contenere le nuove inserzioni immobiliari.

“Guai a voi che aggiungete case a case e poderi a poderi fino a che c’è spazio!” Con l’ammonimento di Isaia si apre Tristissimi giardini, di Vitaliano Trevisan. L’autore vive e attraversa Vicenza e provincia, la periferia diffusa, il luogo abituale in cui viviamo e ci muoviamo. “Così stanno le cose. Più che stare fluiscono, qualsiasi sia la loro natura”. Ma se “spostarsi è comunque un problema per tutti, anzi, è il problema”, appare evidente la complessità delle nostre vite. E il transito che abbiamo trovato per risolvere le nostre esistenze é subito inibito, il capitale non può evitare di conservare e rassicurare – a parole – ma nei fatti trasforma, se il caso distrugge i luoghi stessi. Viviamo quotidianamente il paesaggio dell’incoerenza nel nostro affannoso adattamento. Le zone di resistenza all’evidenza sono la cifra della produzione letteraria di Trevisan, che si può intendere come un virtuosistico monologo.

Il libro è una ricognizione nei luoghi delle opere precedenti, che hanno costruito la convincente voce narrante di Trevisan, fatta di omaggi letterari, a Bernhard, soprattutto; ma senza l’assimilazione di quel paesaggio dell’indistinto, la voce narrante di Trevisan resterebbe un omaggio vuoto allo scrittore austriaco; se Trevisan è Trevisan, è per il legame ossessivo e conflittuale con i luoghi vicentini, che premono lo spazio psichico come un’ombra. Tristissimi giardini è a metà tra il diario e il saggio. L’autore non si sottrae anche stavolta alle consuete invettive contro l’ambiente teatrale, cinematografico, letterario; in particolare, è riconoscibile la polemica verso lo stile di Marco Paolini, a cui rimprovera una banalizzazione da macchietta veneta nel rappresentare Rigoni Stern. Ma le pur condivisibili “tirate” contro certi meccanismi, qui, forse per una questione di spazio, diventano meno insistenti rispetto ai libri precedenti.

Trevisan è conscio di quanto anche l’ambiente letterario possa essere dannoso alla scrittura stessa. E così, nonostante gli abituali viaggi di lavoro a Roma, l’autore torna alla periferia diffusa vicentina e nell’incongrua ma ormai usuale visione di ulivi sradicati un migliaio di chilometri più a sud ed “esposti lungo una statale del cazzo come la Thiene-Bassano”, trova la spinta per la parte migliore del libro, i capitoli Tristissimi giardini e Frammenti sulla vecchiaia. “I giardini non sono affatto tristi. Non sono nemmeno allegri, ma, a chi vuol guardare, dicono molto sugli esseri umani che li governano.” L’autore ritorna a vivere nella vecchia casa dei genitori ormai defunti. È una casa singola, con un piccolo giardino, ubicata in una delle infinite via Dante italiane, circondata da case simili, costruite negli anni ’60 e abitate da ex operai ottantenni, da vedove che coltivano ancora un piccolo orto, accanto ai nuovi proprietari, famiglie di quarantenni con prole, che hanno ristrutturato le case e incarnano il sogno di una classe media anglosassone. Qui non ci sono progetti, aperitivi per ipotetici soggetti cinematografici, consolazioni cittadine, e neppure la tensione a una vita borghese. Esistono più nitidi i giorni, i segni sui giardini del tempo, e la non appartenenza, inconciliata pur nella vicinanza, diventa l’unica condivisione possibile, il destino della scrittura.

[questo articolo è apparso su “La Repubblica” del 22 giugno 2010]