Il disastro dei vivi (su Freddo da palco, Luigi Socci)
di Francesco Ruggiero

Questa piccola raccolta di Luigi Socci – condensato di una produzione più vasta,  offerta spesso in occasioni pubbliche,  e reperibile all’interno di antologie, riviste o blog letterari – mette a fuoco la condizione senza riparo degli uomini, attraverso la metafora del freddo, da palco e da cortile.

Freddo che lega il marmo della prima sezione (Berniniane) alla morte, protagonista della poesia che chiude la silloge (Ultima Prima al “Na Dubrovka”). Stato termico e stato terminale quasi coincidono,  così come estasi termica e stasi terminale non differiscono poi molto nello sguardo dell’autore, che restituisce in un’orbita mimetica il delirio dello spettatore e quello dell’eroe. Santa Teresa d’Avila “vestita di scogli”, “becchime per angeli”, vortica al centro di uno spettacolo ineasausto di polvere e di allori, avvolta da un’ipnosi scolastica o turistica. “Il tritone accasciato in piazza Barberini/ mollemente…” mendicante acqua e attenzioni, appeso al proprio soffio subacqueo come gli spacciatori ai sussurri di strada.  Sino ad “Ultima prima”, riuscita didascalia in versi all’immagine della terrorista cecena, esanime sulla poltrona del teatro moscovita in seguito all’intervento dell’esercito russo, che esplora la vertigine di un palcoscenico in cui, di nuovo, pubblico e attori, ostaggi e guerriglieri, si confondono nel loro raggelante ultimo istante, assorbiti dalla condensa, all’ombra dei riflettori, e della storia.

Un ulteriore elemento d’indagine è dunque il teatro, tema caro al poeta anconetano: la teatralità del barocco e il mestiere di vivere sopra un palco, respirando un’atmosfera fragile, tenuta su con gli spilli, “si può perdere il senso andando a tempo/ può spezzarsi l’incanto/ se vibra senza suono da una tasca/ qualcosa di non spento”, nel battito unanime dell’infinito presente, condannati a replicare e replicarsi per sfuggire, come si può, all’ultimo atto: “Ricadi e cadi ancora/ esperta in ricaduta/ acerba come un frutto/ che ogni giorno matura/ che rimuore sei giorni/ su sette per contratto”. I corpi e le voci imprigionate in uno sconfinato debutto: andare in scena, rinvenire al mondo, slegandosi dallo stesso all’acquisto di un biglietto “La parte seghettata del biglietto/ agevola il distacco”, routine che arretra solo di fronte a un eccesso di realtà. E considerato che il sopra (ma anche il sotto) del palco si compone come una palestra uguale alla vita, il freddo non dà scampo, quasi fosse il cielo d’acciaio di Pagliarani: “Non ho (perché non c’è) nessun riparo/ dal refrigerio che soffia dal sipario/ perché il freddo da palco esiste/ e in questo consiste”.

Il peso argomentativo è affidato ad una coerenza stilistica interna. In Socci, così come in Palazzeschi (autore a cui lo accomuna l’ironia e un tagliente disincanto), è presente un’intrinseca teatralità del linguaggio, che si presenta colloquiale e capace di un ritmo lieve e incalzante insieme, come se la stessa “voce narrante” fosse uno dei personaggi in scena. Alcuni versi sembrano raccogliere frammenti di un discorso performandoli, per mezzo di enjambement, assonanze e rime incorporate all’interno di modulazioni sintattiche esatte e fluide: “Si fa coraggio ostenta sicurezza/ prova a darsi le arie a farsi grossa/ impara sulla propria/ pelle a farsi le ossa”.

Ecco quindi che la voce del poeta riesce nell’impresa di essere “fredda”, distaccata, eppure drammaticamente partecipe al disastro dei vivi che va in scena tra i cortili “dove azzurrati al posto di imbiancati/…/ crescono i delicati stenti/ degli ulivi condominiali”, nelle chiese e nelle piazze come in un ininterrotto teatro sotto assedio.