Giovanna Marmo, Occhio da cui tutto ride
di Francesca Matteoni

4550_97377174448_97376089448_1715684_2115240_nOcchio da cui tutto ride, occhio da cui il mondo sgorga come una sorpresa e poi si rovescia, mostrando l’aspetto brutale, vorace.

Occhio da cui tutto appare con i tratti semplici di certe abitazioni di fiaba in illustrazioni infantili, o di oggetti domestici, comuni come la porta di un frigorifero, buchi di tavoli tarmati, buste trasparenti, che possono aprirsi su antri pieni di segreti, cose morte, frammenti d’incomprensione.

Occhio da cui nascono le poesie ed i disegni di Giovanna Marmo, parole esposte sulla pagina, creature mutanti che gemmano o divorano, hanno a loro volta grandi occhi spalancati, braccia-bastoni, teste-falena.

Mostrano che l’altra faccia della fantasia è il terrore, che tra il bambino e l’adulto sta uno spazio di sgomento sospeso tra il racconto e la vista.

Nel libro precedente la Fata Morta del titolo evocava la fatina di Peter Pan che muore quando qualcuno smette di credere in lei, ma anche la perdita di una ricchezza primigenia e speculare dell’essere, nello sviluppo adulto (Sono la fata morta,/sono il tuo specchio, la mia dolce vendetta e/ non ho voce.)

In questo nuovo lavoro l’impulso infantile è l’occhio ridente, la cui allegria viene però violata, gettata nello straniamento del corpo proprio e altrui. Il mondo è senza senso: solo il dono magico che ci viene dato nell’infanzia, quell’occhio, appunto, come una sfera iridescente, ci permette di affrontarlo, procedendo da quando tutto era vivo, verso la fine – un minuscolo volo liberatorio su ogni terra.

E il posto, l’ognidove da cui ha inizio tutto, è il nord archetipico della prima sezione, Metà orso – un’origine remota, dove l’universo si spezza in due nella freddezza materna dell’acqua (che sia d’aria o d’acquitrino), e in una lingua famelica, sopravvivente, di fuoco (avvolta/ da un leggero fuori/fuoco parla:). Risuonano in questi testi le tradizioni dei nativi dell’Artide, popolate da figure totemiche, da esseri umani che si staccano con fatica e mai del tutto, dai loro parenti animali a cui continuano ad essere legati dalla consapevolezza di una medesima fragilità di fondo in un paesaggio difficile. Acqua e ghiaccio/muschio e roccia,/cancellano il cielo./ – due superfici riflettenti, la tundra e lo spazio soprastante, due deserti per vagare senza confine, ma anche schermi di telecamere, dove le storie si ripetono, aggallano dal nero, arcaiche e contemporanee insieme. Tra di loro ciò che è morto non svanisce, sa, al contrario, essere meglio ascoltato, come una rivelazione che proviene di volta in volta da resti d’animale, una caduta di corvi, le foche in agonia o dalla balena che è fondamenta, sotto una colata di cemento cieco, di un palazzo imperiale.

In questo settentrione (scritto come un film muto e sgranato, ma anche come una reale mutazione e traslazione di sé) avviene il primo attraversamento verso la società, il tempo dispiegato in sequenza ed i suoi imprevisti – l’amore, il sesso, il rapporto con l’umano e con l’animale, sempre avvertito come compagno, essere sodale. Così nel bel testo Cane e orso si dice:

Ghiaccio:

verso sera, decido
di attraversare il lago.

Seguo le mani
viste in sogno.

Vuoto.
Cammino con il cane
e con l’orso.

Sulla diga:

a volte cammino io
davanti,
a volte l’orso.
Ora.
Il cane corre per raggiungere i lupi.

Da qui si procede nella sezione che intitola l’opera, dentro l’occhio senza ciglia,/ senza palpebre, senza quindi alcuna protezione, dove tutto sembra ammutolirsi, schiacciarsi nelle cose (nei muri, nelle finestre, nelle lamiere della auto), sopraffatto dall’urto dell’altro. La lingua che riscrive è asciutta e pulita, difende una sua propria forza, che sta tutta non nel lacrimare, ma nel tenere fermo e partecipe lo sguardo. Così emergono davanti a noi dodici piccole teste, da un po’ di rosso, che ricordano la fiaba terribile di Barbablù e ciò che un uomo apparentemente rispettabile, può nascondere in cantina, ma anche l’immagine ricorrente di un animale ucciso, il più vicino all’essere umano: il cane senza naso/ cammina nel buio; Denti/ di animali/ che non vedono/ la luce – dove la luce, ciò che permette di vedere, non è una presenza rassicurante, ma il sintomo di un nuovo paesaggio pericoloso, fatto di macchine e metallo, case fatte ostili. E la testa, gli occhi, il corpo sono smontabili, pezzi inerti ad uso e consumo degli altri, mentre si ha l’impressione che il cuore resti sotterrato, prigioniero del ventre come una lunga chiusura lampo, sugli affetti inconfessabili, che suonerebbero ridicoli al mondo, come appunto il legame empatico con l’elemento animale.

L’altro umano invece si ibrida di elementi inquietanti: vive immerso nel cemento senza soffocare, mentre la donna al contrario vi sprofonda; è un fantasma che provoca incidenti; è rotto, solo, circondato e abitato dai suoi oggetti – una lampada nel petto, un televisore in testa, che non gli danno tuttavia la possibilità di una vera comunicazione, lo lascia etereo come un’ombra, un bambino tagliato a metà, smarrita la metà della parola, del tatto. Quest’uomo grottesco e triste della poesia assomiglia ad un mostro tutto bocca, ma senza le corde vocali. E la poesia, percorsa da disturbanti allucinazioni, ha invece una sua acuminata chiarezza, rende al lettore sentimenti, angosce e ironia solidificate in materia a cui appigliarsi, da afferrare per tracciare le linee dell’identità.

Si arriva dunque all’ultima sezione dove il frigorifero luminoso si apre sull’io e il tu installati al suo interno, conservati l’uno vicino all’altro nelle loro pellicole di esperienza stratificata, di sospetto, desiderio e reciproca violenza, sebbene detta come un gioco non lontano da quelli di molti bambini. Ho un’idea di cattiveria della natura, ripete la Marmo in un testo. Cattiveria da cui nessuno è esente. A questo punto mi è tornato il ricordo libresco di alcuni bambini che nella Germania luterana del diciottesimo secolo, alla fine delle persecuzioni per stregoneria, se ne uscirono con storie aberranti e incredibili, sulle loro partecipazioni a sabba, riti diabolici e incontri con Satana in persona. Non fu dato molto credito ai racconti, ma certo questo testimonia di un ambiente sociale che contamina tutti con la sua paura e follia, e che si ripete – oggi le streghe, domani l’handicap o l’omosessualità. Tra loro spiccava la storia di Regina, una bambina vittima di violenze non solo familiari, che portava a scuola panini imbottiti dei suoi escrementi.* Le sue piccole, rivoltanti “cattiverie” – il rifiuto del corpo come segno identitario, richiesta di attenzione. L’enorme spavento dell’infanzia che si fa la più vile delle materie organiche. O che nelle poesie di Giovanna, prende la forma comica e paurosa di un grande nano, un nano nudo, che insegue la bambina, ma senza cui nemmeno è possibile dirsi nati. Perché si nasce al corpo e alla sua congenita malattia del decomporsi e soffrire, si nasce a meravigliose e tremende incognite. Si trova il sesso, il tu, in un male inevitabile e attraente; ci sfugge l’infanzia nel lucore dell’acqua, della memoria dove tutto sta ben affiorato e irraggiungibile.

Il mio modo di
sfiorare l’acqua
non è giusto.

Muovo le mani,
mi sfugge un
bambino di mano.

Vedo nell’acqua trasparente
un bambino andare giù.

L’acqua è
molto trasparente.

Permane nella poesia una bambina che si ribella all’omologazione, che indossa un disprezzo ed un feroce immaginare. Una bambina ostinata, pazzesca nei suoi gesti: ha una piccola cacca in mano, ma anche una coperta azzurro-cielo, è fiera del suo odore animalesco, gioca da sola in campetti suburbani, non sa come toccare, ma affila benissimo il coltello dell’amarsi e anche il sesso maschile è per lei un ramo, qualcosa che dopotutto assomiglia ai bellissimi alberi di cui è fatta, che respirano dai buchi della sua persona. Forse, sembra dirci infine la Marmo, è proprio così che ci si tiene leggeri, anche nell’indifferenza e nel dolore: mantenendo il dettato di un incanto, il tempo umano nell’occhio perfino quando esso è crudo come una chiazza di sangue, un tubo scheggiato di vetro.

* L’episodio dei bambini satanici è tratto dal libro della storica Lyndal Roper, Witch Craze. Terror and Fantasy in Baroque Germany (Yale University Press, 2005).