L’esame di inglese
di Alessandro De Roma

Nella grande libreria di SouthCity una madre elegante si lascia trascinare da un bambino di non più di cinque anni davanti allo scaffale dei giocattoli. Il piccolo vuole una macchina telecomandata. La madre non è d’accordo. “Quella c’è l’hai già, non ti ricordi?”, dice. “Prendi quell’altra invece, che non ce l’hai”.
Ma non c’è niente da fare, il bambino insiste. Ora avrà due macchinine uguali. Che problema c’è, del resto, dal momento che tanto poi dimenticherà di averle?
Tutta questa conversazione si svolge in inglese tra la madre indiana e il bambino indiano. Mentre una donna sulla cinquantina sta alle loro spalle e aspetta. Una donna di servizio, forse, che accompagna la padrona al centro commerciale per portare le buste della spesa fino al taxi. Tutte le volte che sono entrato in una libreria in India ho sempre sentito indiani che parlavano tra loro in inglese. A Calcutta come a Delhi o a Mumbai.
L’inglese è la lingua dei ricchi e delle persone colte. In parlamento, piuttosto che discutere in Hindi, che è soltanto una delle 1576 lingue indiane riconosciute, si preferisce discutere in inglese.
Sulle frequenze 104.08 MHz a Calcutta trasmette la stazione radio Meow. È una radio per donne della classe media. La mattina trasmette in bengali, quasi esclusivamente canzoni dei film di Bollywood, vale a dire tutti i successi della hit parade del momento. Quasi mai canzoni in inglese. Mentre sbrigano le faccende di casa o mentre danno gli ordini a coloro che le sbrigano per loro, le donne telefonano in trasmissione, la speaker dice meow (miao) e loro rispondono miao. D’altronde è una radio per donne, per gattine. Poi parlano in bengali e non capisco quasi nulla di quel che dicono. Depilazione? Tagli di capelli? Abiti? I loro uomini che sputano sul marciapiede quando le portano fuori a cena la sera? Politica internazionale? Fisica atomica? Fatto sta che ogni tanto la speaker infila qualche frasetta in inglese: oh yes my dear; but that is wonderful! oh yes, she is gorgeous, isn’t she?
Man mano che la giornata procede, nella rotazione del palinsesto di miao (meow) fm si inserisce qualche canzone in inglese (le faccende di casa son terminate, si comincia a  pensare alla cena).
La sera uno speaker dalla voce calda -l’unico maschio di Miao fm- conduce una trasmissione quasi interamente in inglese. Anche le canzoni sono successi internazionali. Il bengali è praticamente bandito. È la grande soirèe romantica. Il programma si chiama “between the sheets”, tra le lenzuola: qui fa molto caldo, anche in inverno. Le donne telefonano e sembrano tutte affascinate dalla voce dello speaker. E io, che di bengali conosco sì e no 20 parole, posso finalmente capire qualcosa. In quanto straniero ho accesso alle conversazioni tra le donne dell’elite virtuale della classe media di Calcutta e il loro piccolo sogno erotico serale dall’impeccabile accento inglese.
Fatto sta che qui tutti i luoghi nei quali si parla inglese tendono ad essere molto belli. Il centro commerciale South City per esempio è un posto bellissimo. Non si può negare. Ci vado ogni volta che sono stufo del caos delle strade di Calcutta. Siamo fatti così, ormai. Abbiamo bisogno di queste cose. In India, la terra della meditazione e dello spirito, il luogo nel quale cercare silenzio e tranquillità è South City. I suoi 4 piani tutti ordinati, molto meno affollati delle strade là fuori, puliti, silenziosi. Non a caso dentro questo centro commerciale, come dentro qualsiasi centro commerciale di Calcutta, ci sono moltissimi ristoranti. Qui non è come in Italia, dove la gente mangia qualcosa in fretta una volta che si è recato in un centro commerciale per fare le sue compere. Qui la gente va nei centri commerciali apposta per mangiare. La gente benestante, si capisce. E gli stranieri in crisi di astinenza da benessere.
I ristoranti più eleganti della città si trovano quasi tutti all’interno di posti come South City. Ma ci si può anche accontentare di un morso veloce: nella food court, al quarto piano, si acquista una carta che si può caricare con l’importo desiderato di rupie; poi si fa un giro nel piano, si vede quello che hanno da offrire i vari stand (cibo indiano regionale dei vari stati, oppure cinese, italiano) e, infine, dopo aver consumato il pasto, si torna alla cassa e si richiedono indietro i soldi non utilizzati o, se si preferisce, si conserva il credito per la prossima volta. Tutti ti trattano come un principe, soprattutto se hai la pelle bianca. Soprattutto se parli inglese. “Sono contento, Sir, di vedere che è tornato a mangiare da noi”. Mi dice il ragazzo della cassa.
Sono sicuro che non c’è nessuno tra quelli che mangiano nella food court di South City che non sappia bene l’inglese. Che non abbia una sorella, un cugino che ha studiato o lavorato in Inghilterra. L’inglese è la chiave magica, è l’accesso garantito al benessere. È il colonialismo di ritorno: il disprezzo per se stessi che i popoli che sono stati colonizzati così a lungo faticano a scrollarsi di dosso.  Perfino la mia amica Madhucchanda, che pure ama moltissimo il suo paese e la sua città, mi ha confessato che quando deve dire qualcosa di importante a suo marito o quando deve sgridare i figli, preferisce farlo in inglese.  In parlamento, a Delhi, succede la stessa cosa.