La dama di lamiera
di Elena Mearini

Rientrava al suo cortile, la sera. Una nervatura di foglie secche sopra il viso, la giornata gli consumava la stagione. In casa Gino era uno strapazzo di colori, autunno sfinito dalla raffica del primo turno, dalla corrente dell’ultima sirena. Quel suono gli facevo il callo nella testa, era durone attecchito al pensiero, spiccato al calcagno della coscienza. Ogni metro da ragionare si faceva fitta dentro la scarpa. Così Gino arrestava il tragitto, piantava in terra le parole, smetteva la voce per riposare il piede. Zitto dentro la poltrona, versava vino nel bicchiere. Lasciava al Barbera l’onere del cammino. E questo gli sgambettava in gola, gli crollava in pancia con lo scatto del centometrista. Il Barbera oltre la linea del traguardo, Gino inchiodato alla partenza. Nella misura di questa distanza, passavano i giorni.
Ogni tanto la vita ficcava il nastro tra le ore. Lo faceva col guizzo del pesce dentro la rete, un’invadenza da benedire a remo incrociato. Sbatteva la coda in faccia a Gino, gli scuoteva addosso le sue branchie. Sventagliava luce e scaglie, quella vita emersa dal fondale. E lui se la pigliava tra i denti, col desiderio di cambiare sapore, di variare movimento. Dalla sberla dell’alcol alla carezza del mare. E con il sale sopra la pelle e l’onda viva nella bocca, Gino trovava approdo nella rimessa del suo cortile. Uno spazio  pieno di mensole, chiodi piantati al muro senza niente appeso sopra. Chiodi compagni di un intonaco malandato, messi su per consolazione di crepe solitarie. C’era una vasca zeppa di pennelli e barattoli di vernice, colori in attesa di essere dati, impazienti di compiere la volontà di una superficie. Gino stava piegato sulle ginocchia, mescolava il bianco all’ocra scuro, girava piano e poi sbatteva. Tirava fuori l’occhio di bue dell’uovo saltato in padella. Imboccava di colore quattro assi prese a caso, poi divideva le porzioni per sfamare le pareti. Lo faceva a colpi di pennello, nell’andata e ritorno di un braccio sempre pronto al viaggio. Lui era felice tra le sue mura, uomo di sbronze spente in gola, tornavo sobrio in una tinta accesa. Si sentiva utile al cemento, necessario alla sua cura.
Dal soffitto della rimessa pendeva un cartello tutto sghembo. Una scritta verniciata in rosso era monito per chiunque entrasse.”Ogni cosa al suo posto”. Perché Gino voleva bene al suo garage, pretendeva che gli altri portassero rispetto ai metri quadri della sua salvezza. Al perimetro che lo faceva durare. Da uomo libero e redento.
Taniche semivuote, macchie schizzate a terra, la trielina sopra uno straccio, la crosta scura del pennello. Tutto pareva avere residenza, tetto assegnato per merito e tenacia. Ogni cosa si era guadagnata un posto lì dentro. Insediamento da preservare e mantenere. Di questo si preoccupava Gino. Di difendere il valore delle cose. Cose piccole, minute, rattrappite e sante. Sconosciute al profitto, che a rivenderle non torna il soldo sfondato. Cose abili a rimuovere la logica del mercato, la regola dell’imbroglio, per applicare la legge dello scambio gratuito, di un’offerta integra e totale. Nei confronti di un uomo che in queste trovava motivo di riscatto e ragione d’amore.
Gino prese parte alla seconda guerra mondiale, arruolato come aiuto cuoco a bordo di una nave. Mai parlò della scarica di una mitraglia, o di un ferito caduto al suolo. Cacciò tutto sotto la botola della memoria. Ci restò sopra con i piedi, a fare chiusa sul coperchio. Un passo oltre gli sarebbe costato la mina del dolore. Esplosa nel ricordo, scoppiata addosso al cuore. Forse il giro delle sue braccia, la mescola del suo colore, era addio alla guerra. Nel per sempre di un attimo. Nella tregua di una rimessa. Al disarmo delle ore.
Gino arrivato al settantacinquesimo compleanno. Lo rivedo col vento nelle guance, il soffio spinto sulle candeline. Al collo il bavaglio di un bambino. Tiene latte nel bicchiere, la poppata dentro il vetro. Ci sta il verso di chi è appena nato, a rimpiazzo del Barbera. Un sonoro da succhiotto, sopra il chiasso del litro in gola. Gino colpito da ictus. Paralisi della parola. Lui sempre zitto, ora vorrebbe parlare. Infermità alle gambe. Lui sempre in movimento. Ora costretto a restare. Però negli occhi la vita gira, gli volteggia lungo il corpo, è capriola fino al piede. Sarà per via del walzer con la dama di latta. Per la musica che ancora esce dalla suola, o la viola che ancora scappa dal rattoppo. Sarà perché il braccio destro Gino lo muove. E il suo pennello se ne sta lì. Salvo tra le dita. A dipingere un sole giallo sopra il foglio a quadri.
Il muro ha ridotto il suo spessore, l’intonaco ha cambiato di sostanza. Ma Gino continua. Anche nel millimetro, pure con la carta. Davanti al domicilio nuovo di un colore, passato dal barattolo al tubetto.
Gino comincia e ricomincia, l’interruzione non è il suo affare. Ogni tanto prova a dire. Rischia la prima sillaba del suo nome. Tenta di nascere dalla sua iniziale. “Gi… Gi”, una balbuzie analcolica, effervescente di coraggio, senza il gas della paura.
Mangia la sua fetta di torta. In una mano il cucchiaio, nell’altra il pennello.
E oggi non è più l’uomo che cercava un acquario di stelle dentro al fiasco di vino. Gino al cielo ci sta in mezzo. È punto fisso dello zodiaco. Ha trovato le coordinate del suo destino.
Posso vederlo, la notte. Mi basta girare lo sguardo su. In alto.