I baffi di Katyusha
di Ade Zeno

Ho un amico delizioso (in realtà non so ancora bene se si tratta davvero di un amico, diciamo che mi piace pensarlo così, benché il tipo di frequentazione che ci unisce appare a dir poco episodica, e se non esistessero i telefoni potremmo a ragione definirci due semi-sconosciuti), un amico, dicevo (d’ora in poi lo chiamerò comunque così), che a quanto so gode di ottima fama non solo tra i suoi amici (gli amici veri, intendo), ma anche fra i molti che non hanno mai avuto il privilegio di incontrarlo (né di sentirlo per telefono) e che tuttavia si sono imbattuti, più o meno per caso, nei suoi versi. Il mio amico delizioso, infatti, è un poeta. Un poeta tanto schivo quanto poco produttivo (le composizioni da lui firmate si contano sulle dita di diciotto mani), e tale improduttività è almeno in parte imputabile al fatto che il mio amico di mestiere non fa il poeta (sono pochissimi i poeti che per vivere fanno i poeti, comunque molti meno di quelli che lo fanno per morire), e siccome il tempo è tiranno, e il versificare richiede tempo, il mio amico poeta spende giustamente gran parte delle ore a sua disposizione in attività più redditizie. Per motivi di riservatezza non dirò il suo nome (chi lo conosce lo riconoscerà), ma vorrei in ogni caso sottolineare che prima di scrivere queste righe gli ho chiesto formalmente il permesso di farlo, permesso che lui mi ha accordato senza riserve. La telefonata durante la quale si è parlato, fra le altre cose, di questa autorizzazione, è terminata da poco, lasciandomi come di consueto con il piacevole ricordo della sua voce calma, e del suo lieve accento marchigiano, inflessione regionale che – nella sua versione più marcata – solitamente trovo spiacevole, ma che su di lui mi pare, al contrario, amabile e divertente. Il mio amico delizioso, oltre ad aver scritto poesie bellissime, dispone di molti altri talenti, fra i quali quello di saper schioccare la sella del naso (l’ho scoperto da poco, a riprova del fatto che i talenti emergono solo per gradi). Ma il vero motivo che ora mi spinge a scrivere di lui è un altro: si tratta di una piccola storia di cui, ormai molti anni fa, è stato protagonista insieme alla sua attuale compagna, che per onestà narrativa dovrò chiamare con il suo vero nome: Lucia. L’episodio, riferitomi dalla stessa Lucia, risale a un periodo precedente alla loro unione amorosa, più precisamente al giorno in cui lei – provvisoriamente solo amica del mio amico – si era lamentata di talune scritte che tempestavano i muri della loro città, scritte romantiche, s’intende, più o meno tutte ascrivibili alle formule canoniche che prevedono in prima posizione il nome proprio della donna amata, e in seconda il verbo amare coniugato a dovere (in genere al presente, oppure al futuro). Le lamentele della ragazza concernevano non tanto la banalità di tali predicazioni, quanto l’assenza – chiaramente ingiustificata – del suo nome, tutto sommato abbastanza comune, compensata dalla diffusa presenza di nomi molto meno consueti come ad esempio Katyusha. Un qualsiasi altro mortale desideroso di sedurre la fanciulla avrebbe fatto in modo di provvedere quanto prima a tale mancanza, il mio amico invece ebbe l’idea che ha fatto innamorare gran parte delle donne a cui l’ho illustrata. E l’idea fu quella di recarsi nottetempo davanti all’abitazione di Lucia per scrivere a lettere cubitali su una parete la frase seguente: «KATYUSHA TI FA UN BAFFO». Il che, a mio modesto parere, basterebbe di per sé a fare del mio amico delizioso il grande poeta che in effetti è.