Mille chilometri di distanza
di Andrea Scarabelli

A volte guardarti da qui, da oltre mille chilometri di distanza, mi spinge un sorriso sulle labbra. Forse ti chiedi che senso abbia. Allora prendilo, tutto questo, come una denuncia, o un’autodenuncia. Non ho mai capito con esattezza da dove sia scaturita l’inquietudine nei nostri corpi. Se dovessi indicare il luogo esatto del naufragio sceglierei proprio questo, almeno per ora; il momento in cui hanno iniziato a sembrarci lontani. C’era sempre questa tonalità abbacinante, nelle lenzuola che sceglievi, come essere in pieno sole. Forse non era così, potevano anche essere anche blu, ma io se guardo indietro vedo solo luce. Vedo le tue braccia bianche allungarsi nel bianco. Forse hai ragione tu, quando dici che le parole non pesano, non impattano alcunché, che il mondo è del tatto, del fare. Ho sempre considerato l’espressione fare l’amore una delle più fantasiose mai inventate dal genere umano. Le parole non sanno fare niente; questo, non è niente. Io scivolavo come le mie mani dietro alle tue scapole, a fondo, nel modo in cui si spinge la testa sott’acqua, per nuotare, con la certezza che poi si tirerà fuori, di nuovo, per sopravvivere. E poi di nuovo sotto per morire un altro po’; vivere, affievolirsi. Il modo in cui tutto restava fuori dal perimetro lattiginoso del letto ora mi sembra un segno inequivocabile, prima c’era troppo affanno, sudore, nessuna mappa da leggere, niente da cercare. Ancora non riesco a capire quando è arrivata l’inquietudine, in quale momento, quando ha fatto il suo ingresso e si è diretta verso il letto, senza fermarsi. Continuerò a pensare a ogni parte del tuo corpo come a una conquista. Una volta ho scritto un elenco per non dimenticarle. Si può essere solo animali, selvatici. Non è morale avere paura, non è ammissibile; l’hai ripetuto talmente tante volte che mi hai quasi convinto. Mi hai reso anche senza pace, forse pensavi di farmi un regalo. Forse ti eri semplicemente stufata di questo mio incespicare dappertutto senza cadere mai. La prima volta mi hai trascinato per mano, mi hai fatto correre: temevo mi avessi scambiato per un aquilone, non volevo deluderti non staccandomi da terra; invece volevi farmi precipitare. Sono caduto nel letto, insieme a te. Eravamo pallidi, mai quanto le lenzuola. I tuoi capelli erano parzialmente costretti in una coda, erano scuri e facevano uno strano effetto contro il letto, come disegnati; si muovevano schioccando, assomigliavano a un frustino. Quando ti guardo da qui, da mille chilometri di distanza, mi cadono le parole. Ci ho riflettuto a lungo e non sono arrivato a nessuna conclusione, questo mi fa pensare che forse eravamo liberi davvero. È stato tutto diverso, dopo, nel senso che è stato tutto sempre uguale a sé stesso, ma diverso da prima. Se qualcuno mi avesse detto pensaci bene perché poi non tornerà più, probabilmente l’avrei mandato via a calci. Eppure. Ma si è come si è, o forse non si è in alcun modo, ed è una pillola troppo grande da ingoiare. In ogni caso, eccomi, volevo dirti che ci penso ancora. Anche se so benissimo che, dicendotelo, l’ho fatto finire.