Dall’altra parte del muro
di Ade Zeno
La vedo passare, dall’altra parte del muro, e penso a quante dita ci sono fra noi. Provo a contarle senza contare (un indice, due anulari, sei pollici di ottomila centimetri) così, a mente, girando intorno a numeri imprecisi, sicuramente sbagliati. Ci guardiamo senza dire nulla, le nostre bocche rimangono ferme, i denti nascosti sotto le labbra, le lingue ammutolite tra la gola e il palato: non conosciamo le parole, siamo due corpi – lo sappiamo fin troppo bene – che non si incontreranno mai in un luogo diverso da questo. Ha i capelli lunghi, le guance chiare, sulla sua fronte lucida di sole scorgo sempre gli stessi riflessi argentini, mi piacciono molto, spesso mi sorprendo a pensare che vorrei tanto essere loro, trasformarmi in brillìo, in scintillaggini capaci di abitare con eleganza quelle piccole pieghe disegnate accanto ai suoi occhi. C’è una strada invisibile che si snoda come un piccolo serpente e taglia la terra, l’aria, l’erba, i fiori sbilenchi, lei si ferma lì, tra un lembo e l’altro della linea, e da quel punto preciso mi guarda per minuti lunghissimi. È una strada che non so dove arrivi, riesco a guardarla soltanto per un tratto molto breve, un perimetro sdraiato fatto di polvere e minuscole pietre, di tanto in tanto ne avverto l’odore sabbioso, un profumo umido che mi entra nel naso quando piove, d’estate, e non m’abbandona più per giorni e giorni. Non so cosa venga a fare la bambina in questa zona deserta della città divisa in due. Forse soltanto quello che faccio io, vale a dire niente, un passaggio distratto, sbadato, quasi per caso, un susseguirsi di movimenti di inappartenenza. Eppure se questi movimenti prendono forma anche solo per scorgere una sagoma distante, allora vuol dire che a qualcuno appartengono, e questo qualcuno – ne sono certo – è lei. La vedo, dall’altra parte del muro, e provo a immaginare quanti anni luce ci dividono. Non sono così tanti, ma a conti fatti risultano comunque troppi, una sequenza disordinata di cifre inafferrabili, buie, nemiche. Le ho dato un nome che non è il suo, e una voce che non ho mai sentito. Se il tempo è bello ridiamo insieme, ma senza esagerare, senza far rumore, limitandoci a qualche lieve incurvatura della bocca. Ha un sorriso timido, probabilmente molto simile a quello che si dipinge ogni volta sopra il mio mento spaurito. Se piove, invece, ci salutiamo alzando gli ombrelli di qualche centimetro con un gesto morbido, una specie di segnale che riconosciamo soltanto io e lei. Anche in questo caso sorridiamo, ma con più compostezza, per qualche secondo appena, nient’altro. Mi sembra una bambina bellissima, se fossi bello come lei sarei molto più felice di essere me, ma il destino – o qualunque cosa stia lavorando al suo posto – ha deciso che devo essere quello che sono, e che dovrò stare qui per sempre, anche se il mio unico desiderio è di vivere dall’altra parte del muro. Circondati dal silenzio dell’acqua che danza e ride, facciamo finta di non essere noi.
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