Matteo Marchesini, Marcia nuziale
di Fabrizio Bajec

marchesini

Del Marchesini poeta avevamo già avuto occasione di occuparci all’uscita del primo libro, Asilo (Edizioni degli amici, 2004) ed è giusto ricordare che si tratta di uno di quei felici casi in cui uno scrittore mantiene agli stessi livelli le sue plurime attività di critico, saggista, narratore e cronista. Con qualsiasi genere letterario egli senta l’urgenza di cimentarsi, è sempre l’indagine il suo punto di partenza.
Sembrerebbe sia la prosa, e non la poesia, il primo canale espressivo di Marchesini, se non sapessimo quanto bene possa usare la metrica classica per articolare il suo pensiero.
Meglio dire allora che la prosa riscalda il motore della poesia e ne è il carburante.
Vorremmo cominciare dall’esterno di questo libro, entrare quindi nell’epigrafe di Auden, e procedere di sezione in sezione, per capire come la raccolta, in parte antologica, è stata costruita.
Essa contiene infatti il meglio dei due libri precedenti, Asilo e I cani alla tua tavola (Atelier, 2006), ma le carte sono state mischiate, la cronologia originaria non è rispettata, e troviamo alcuni componimenti ritoccati.
E’ innanzitutto il titolo che ci è parso enigmatico, quasi ironico. Sia nella prima che nell’ultima sezione del libro si parla di rapporti con l’altro sesso, e i tre quarti delle poesie della raccolta sono amorose ed elegiache. Sarebbe facile pensare che il protagonista di questa marcia nuziale sia almeno una donna, accompagnata dall’autore. Una lunga marcia in cui ci si tiene a braccetto, nonostante le innumerevoli difficoltà evocate lungo la via.
Il matrimonio è la meta ultima mai raggiunta, la fusione totale qui evidentemente impossibile. E mentre dalla memoria sorge una scena molto vivida di un film in bianco e nero di Fassbinder, una marcia nuziale mimata e reiterata dallo stesso attore-regista in un viale di Monaco, accompagnato da una fanciulla sbigottita, o i vuoti ritituali degli aguzzini di Salò, vestiti da sposi, nel film di Pasolini, guardando l’epigrafe di Auden sorgono altre domande.
Chi sta arrivando in marcia? Quali nemici dagli occhi infuocati? Quali stivali minacciano col loro rumore chi è fermo e aspetta?
Non ci è dato ancora di saperlo. E tuttavia, se dicessimo che il tema portante del libro non è solo il rapporto amoroso ed elegiaco con la donna, ma il più banale mal di vivere, e chiamiamolo qui ”malattia”, allora bisognerebbe immaginare questo matrimonio del poeta col proprio malessere. E la donna ne sarebbe lo specchio. Questa inesorabile marcia, coraggiosa ed eroica, è quella di un uomo alle prese con un male oscuro e atavico.
La donna rappresenta anche l’Altro inimitabile (« Ma al tuo passo di marcia il mio vacilla », p. 21), con cui si lotta perché è un’icona o un oracolo infrangibile (due termini che compaiono spesso in queste pagine).
Una sezione del libro si intitola appunto ”corpo a corpo”, la  più erotica in senso plastico, ma anche quella in cui di fronte al conflitto si « avanza e si arretra ».
L’arma di questa lotta è di sicuro la mente, il pensiero, e la letteratura è la sua fodera.
Il pensiero va spesso a braccetto con il male: « e la ronda dei pensieri che ti violano / resta per te una musica segreta. Non sai / che il passo muto della malattia (p. 15); « scrivo del male » (p. 68).
La figura femminile rimastica il male e lo risputa: « la faccia avrai del male che ti chiama » (p. 26). « Ma presto è la nostra malattia a trasformarla in litania » (p. 27).
Subentra quindi la paura che l’arma della lotta (il raziocinio) sfugga di mano: « la mia mente si fa prendere da oracoli » (p. 35); « mi cancella l’orma del pensiero » (p. 65); « E perché il pensiero / combatte con l’idea che  un’aria infesta / come a togliermi i sensi e l’intelligenza / riempia la casa? » (p. 92);  « mentre in me un coro / di ire cresceva, e tradiva il pensiero » (p. 94) « che annientando moltiplica col sonno / la mia ragione (…) una vacanza della mente » (p. 95).
E citiamo il passo più esplicito: « Se sapessi dove nacque il terrore/ di perdere ogni dono, e perché pulsa / lì e solo lì la mia ragione (p. 103).
La risposta viene fuori nella seconda sezione del libro. Dopo la bellissima serie di elegie amorose (tutte verticali, mortifere, acute come le voci di due bambini impegnati in una gara di dolore), incontriamo le figure genitoriali, che incedono sulle soglie di porte che non si dovrebbero varcare. Sono indicati come carnefici, ombre passioniste, capaci di colpire a mani nude, piangere, essere ” impotenti”, poi ”astute” e ”vili”. E tutto accade in quell’Asilo che dà il titolo al capitolo secondo della raccolta ed è ricettacolo di un passato che torna a visitare il protagonista. Il romanzo famigliare si apre su tetri cortili, giochi di potere tra ragazzi, nel tempo dell’innamoramento.
Ma l’asilo è anche la scatola degli attrezzi o il dizionario dal quale usciranno vocaboli riusati lungo tutto l’arco del percorso. Il colore  bianco,  le geometrie, aggettivi come ”ascetico” e, coerentemente, tutto un’immaginario cattolico  tradotto in ”preghiera”, ”miracolo”, o  « quelli che smossero la pietra del sepolcro ». Il bianco diventa progressivamente simbolo di perfezione, di un’ascesi necessaria,  in cui trovare rifugio, come nella « nudità del bianco appartamento » (p. 71).
Esattamente al centro del libro, si trovano i Quattro ritratti inediti dedicati ai poeti amati e importanti per l’autore, ossia la Letteratura. Sembrano quattro monumenti eretti per dare forza alla biografia fin qui saccheggiata. Forse è proprio a questo punto che si compie l’ascesi di cui Marchesini ha bisogno, non prima e nemmeno dopo, quando si riparlerà di amore.
Quest’altro amore, votato a Caproni, Sereni, Fortini e Pasolini, non lascia ombre sulla formazione del giovane poeta. Essendo anche critico, e dunque ipercosciente, i dipinti sono in parte opere analitiche.
Ci piace pensare l’autore come fratello minore di due di quella schiera. Lo si potrebbe porre esattamente tra la « cruda parodia marziale », « l’ultimo rigore » di un Fortini  e  il Pasolini cristomorfo e mendicante d’amore.
E’ davvero da quest’ultimo che Marchesini prende le distanze, elaborando la posizione delle poesie nel libro, contro le leggi naturali della cronologia. Come per paura o rivalità nei confronti di chi si sente troppo vicino, egli tenta lo scarto, escludendo poesie pasoliniane e aggiungendo un’inedita serie (la quarta sezione), tutta ipermetrica, il tripudio del formalismo, nel tentativo, anche, di governare con le armi della letteratura la tempesta amorosa e spiegare con lo stile il dolore della relazione.
E’ un’attesa di minaccia (”La seconda attesa”, appunto). Ovvero 17 sonetti guerrieri in cui si torce il collo alla sintassi in 17 modi diversi, guardando forse a Shakespeare. E la posta è molta alta, l’impresa difficile e l’esercizio perfetto. Ma tra endecasillabi in rima baciata, alternata, incrociata, e incatenata, il rischio di sfocare le immagini aumenta – con la sintassi sotto sforzo e sempre più tortuosa – anche il tasso di letterarietà è in crescita. Le lodi diventano monologhi ridondanti, ragionamenti a voce alta, autobiografismi, se la volontà di spiegare predomina. E’ quindi il capitolo più debole della raccolta e più spericolato, poiché reattivo e teso nello sforzo di raggiungere per hybris quel bianco che è bene non toccare.
Nonostante ciò, le altre quattro sezioni del volume testimoniano  di un ideale equilibrio trovato tra vita e letteratura, un equilibrio rarissimo oggigiorno.

Matteo Marchesini, Marcia nuziale, Libri Sheiwiller, Milano, 2009, pp. 124, 14.00 euro.