La bella polvere (su Luigi di Ruscio)
di Giorgio Falco

Alla fine degli anni ’80, volevamo fuggire ventenni dal senso di asfissia per ciò che l’Italia rappresentava da quando eravamo nati. Un mio amico voleva andare in Norvegia per fare il magazziniere, vai lì, fai il magazziniere, e le tue cose. Il problema non era solo trovare lavoro, imparare il norvegese e le parole necessarie per lavorare in magazzino. Il problema principale era e le tue cose. Cosa volevamo diventare? Non lo sapevamo, l’unica cosa che avremmo dovuto fare ai quei tempi era scappare, ma non l’abbiamo fatto, ci siamo dispersi qui. Questa vecchia storia su Oslo mi è tornata in mente durante la lettura di Cristi polverizzati di Luigi Di Ruscio (Le Lettere, pp. 317, introduzione di Andrea Cortellessa, interventi di Emanuele Zinato e Angelo Ferracuti), un libro che è, contemporaneamente, romanzo, diario, affresco autobiografico, memoriale storico, testimonianza. Di Ruscio è nato giusto ottant’anni fa a Fermo ma vive a Oslo dal 1957, dove ha lavorato in una fabbrica metallurgica per trentasette anni. Dopo un’infanzia segnata dal fascismo e dalla guerra – “noi del 1930 ne abbiamo fatte pochissime ma ne abbiamo viste praticamente tante” – Di Ruscio ha esordito nel 1953 con la raccolta di versi Non possiamo abituarci a morire, opera che ha suscitato l’interesse di Fortini, più volte evocato tra le pagine di Cristi polverizzati. Poi una prima fuga in Svizzera e infine, dopo un breve ritorno, la Norvegia: “io sognavo di emigrare lontanissimo e per sempre”. Dal suo esilio di Oslo ha scritto soprattutto poesia. Ma è del Di Ruscio narratore che qui occorre parlare, lo stesso che Calvino ha accostato a “Celine, per la volontà di scaricare nel flusso di parole una cupa aggressività.” La prosa di Di Ruscio ricorda il rugby, le migliori azioni alla mano: è una lingua armoniosa nell’avanzata furiosa, procede con percussioni, a folate, attraverso piccoli passaggi all’indietro che la compattano pur aprendosi allo stupore di infiniti rivoli digressivi, lingua che è lotta e si divincola da se stessa, impossibilitata ad accontentarsi della frase, si frantuma nei placcaggi, nelle mischie, quando il pallone sembra bollire sotto la superficie dei corpi, perdersi dentro di essi, ma proprio in quel momento, quando pare tutto perduto – e forse lo è – la lingua si ricompone, con guizzi, aggiustamenti, scossoni e buffetti, quasi carezze, che fanno riemergere, per un istante, l’ovale. E poi riparte, condannata a espandersi, felice comunione musicale, jazzata, sintesi tra poesia, tradizione orale, talento naturale, espressione vitale con ciò che potremmo definire l’alfabetizzazione di una resistenza, della Resistenza: “l’alfabeto era in mano ai proprietari terrieri e ai preti addetti alle proprietà” scrive Di Ruscio, e aggiunge: “una classe che le storie non le ha mai scritte e non le ha mai inventate”. Una lingua corale, epica, “sprocedata”, per usare una sua definizione: procede come un esproprio vivifico ed è data perché conquistata attraverso il dolore dell’esperienza, dei corpi umani e animali, il dolore dei cristi di gesso venduti dall’ambulante Moscatritata, in una già inospitale Milano. Cristi polverizzati è il fascismo italiano e i suoi esiti duraturi, gli anni ’50 e oggi, l’esistenza individuale di un artista inconciliato, dallo sguardo lucido, spietato anche con se stesso: “non sono riusciti a brutalizzarmi completamente, non abbiamo scelto niente, essere fascisti era come essere italiani”. Ma per nostra fortuna Di Ruscio ha scelto, e ci ha indicato quanto possa essere tortuosa la formazione di un artista: “uno non nasce poeta, diventa poeta sapendo approfittare delle smagliature della rete metallica.” Cristi polverizzati ci ricorda quanto sia decisivo, faticoso e al tempo stesso premiante l’aderenza tra vita, esperienza e scrittura, per trovare piccoli varchi, spazi in cui incidere o, per dirla alla Di Ruscio, “iscrivere”. Questa lingua esule, sopravvissuta nella lontananza, è anche il risultato di mezzo secolo norvegese: trentasette anni di ritorno dalla fabbrica, i contorni delle cose a fine turno in bicicletta, giorno dopo giorno, i parabrezza gelati o la meraviglia delle linee bianche tratteggiate, la luce lunga dell’estate sui muri, il felice rinnovarsi della scrittura, verso casa, la vita, e non solo.

Pubblicato su la Repubblica, 5/2/2010