Avatar. La piccola morte
di Un’anonima spettatori

Berlin. Sony Center. Cinema IMAX 3D: siamo in una fossa comune scavata su ad imbuto, sigillata da uno schermo gigante, esaurita. La luce d’intorno si chiude; ci scarnifichiamo dai cellulari, dai vicini di tomba, assumiamo cibo per l’al di là: pepsi-cola e pop-corn. I corpi s’immergono immobili. Vogliamo la nostra piccola morte. Non vediamo l’ora.
Veniamo da ore di terminali, di mediazioni tra sé e sé, da schiere di schiene ingobbite in avanti. Siamo soli, non sappiamo come fare la nostra vita e siamo qui per questo. Per elaborare i nostri lutti, per spezzare il corpo e bere il sangue dell’uomo con la macchina da presa, perché ci mostri le sue ultime tecniche, il nostro nuovo spazio navigabile. Per questo siamo qui. Vogliamo lasciarci indietro. Imparare nuovi trucchi per non essere noi. Adesso. Vogliamo alienazione a prima vista. Anche Sigourney Weaver, e chi per lei, vuole Alien dentro di sé. E noi invidiamo quella interfaccia bara del 2154, ci vogliamo stendere dentro, vogliamo trasumanare. Vogliamo che la piccola morte duri giorni e il corpo s’inabissi, si mummifichi lontano disconnesso. Vogliamo quel sarcofago e non questa fossa comune. Vogliamo una morte fissa, sicura, a tempo indeterminato. Ne vogliamo un free-trial gratuito e ne vogliamo il crack.
E invece siamo qua, al cinema, con l’impaccio delle gambe non amputate, in una sedia, sepoltura scomoda, tra questi muscoli presenti e inutili, da resettare, scordare via in un comando. Basta zombies pezzenti, frankensteine malcuciti, basta crocefissi – vogliamo un upload al paradiso rapido e indolore. Mai più eterno ritorno nelle squid’s clips, nell’odissee, nello spazio dei nostri sacchi di carne, di ossa, di grasso.
Vogliamo un risucchio netto, istantaneo, definitivo. Vogliamo morire. Per essere puffi giganti per sempre.
La luce si riapre, sputiamo le cannucce, reincarniamo i cellulari.