Edoardo Zuccato, I bosch di Celti
di Fabrizio Bajec

Potremmo leggere questo libro seguendo le note in quarta di copertina e dare un considerevole peso ai luoghi estremi dell’Europa: le isole irlandesi e le isole della Grecia – luoghi di vacanza, luoghi storici che l’autore sceglie per introdurre il tema postmoderno delle periferie e del centro (linguistico, politico).
Potremmo ricordare il percorso di Zuccato, dal primo libro del ’96 a questo terzo volume, mettendo in evidenza i punti di contatto con la poetica di Seamus  Heaney, di cui Zuccato è traduttore nonché fine anglista. Non sarebbe neanche inutile ribadire che un poeta come questo è possibile legger9788860090287glo come uno straniero in traduzione (dall’originale alto milanese) e che probabilmente il filo rosso di tutte le sue raccolte è il suo personale rapporto con le lingue (dalla comunicazione più urgente, orale, alle lingue letterarie). Zuccato scrive in una lingua ”barbara” che toglie ogni accento letterario alla  poesia. E’ il parlato medio. E sarebbe meglio dire che (almeno in questo libro) chi parla è un onnisciente uomo qualunque, o il Tutti di Umberto Fiori, siamo noi. Non c’è più separazione tra l’uno che scrive e gli altri; manca l’osservatore, come vedremo meglio in seguito.
Sicuramente tutto ciò fa la differenza tra Zuccato e gli altri poeti italici, e lo fa rientrare in quella casistica di cui accennava anni fa Franco Buffoni, durante un convegno a Firenze sulla poesia contemporanea. Il poeta italiano di domani, meritevole di eccellenza, sarà quello  che avrà a che fare con due o più lingue, iscritte nella sua biografia, divisa in strati geologici. Di questo sembra essere cosciente anche Zuccato che ora si cimenta con la scrittura in inglese. Per lui lo ”scavo” alla Heaney non è solo storico-linguistico, non solo identitario, ma ontologico. Si veda la poesia a pagina 38: «Perché per scavare / c’è abbastanza terra dentro di noi». E non c’è separazione tra quel «dentro di noi» e un fuori, non meglio definito. Da qui in poi il libro esemplificherà di continuo questo rapporto, il suo perno diventa questa similitudine. La terra nell’uomo e la terra fuori, il cervello come intricata pianta ramificata e gli alberi, la psiche e il creato (p. 35 e meglio ancora p. 49). La domanda è sempre: di cosa siamo fatti? A cosa apparteniamo? Si troveranno dunque i quattro elementi costitutivi del Tutto Unico, il creato. Prova ne sono le due poesie  di pagina 60 (acqua) e 61 (aria, vento). Fino a includere un Dio immanente, quasi orientale, o paleocristiano, Dio come natura (a p. 66 ma anche nella poesia a p. 62).
E’ importante notare che la raccolta si apre con un inno alla bellezza, al suo miracolo reiterato. Questo sembra voler dire che per il poeta stesso la bellezza costituisce un bisogno inalienabile. Questo giustifica l’ode, la creazione artistica, la poesia. Si comincia da qui, dall’omaggio a Liv Tyler, novella Afrodite. Posto ciò, in chiave ultramoderna, e giustificata la necessità e il senso della poesia oggi, è possibile introdurre il tema della Storia. Prima attraverso il turismo (p. 13) che sostituisce gli eroi di una volta, col passaggio da un’era all’altra. In secondo luogo, attraverso la Storia che si nasconderebbe nel quotidiano di oggetti d’uso e gesti di scambio (p. 29: «c’è la storia di tutte le storie»). Fino a coinvolgere quel libro naturale che è la lingua, come storia delle parole (p. 52: «Quali bestie, quali voci girano là / in mezzo ai rami o schiacciate nei sassi / come un libro che non ci fa dormire»). Ma una delle allegorie più riuscite della Storia è la trasformazione di animali in piante e di piante in animali, e l’accavallarsi degli strati geologici di cui si narra nella bella poesia a pagina 52, che ricorda per certi aspetti la Genesi.
Altro tema è quello della moltitudine, della folla, anonima o meno, già toccato nel libro precedente, La vita in Tram. Ma è un modo per fare un passo ulteriore nella tesi che la Storia è dentro di noi. Troviamo  l’opposizione tra operai alienati e l’umanità personale, o il bisogno disperato di personalità (pp. 17 e 19). O sono questi forse ancora i milanesi alienati della precedente raccolta (p. 20).
E quando si diceva che chi parla in queste poesie lo fa in presenza di Tutti (alla Fiori) è perché il poeta cerca l’intesa, non con i lettori, ma con i viventi, cerca l’accordo, vorrebbe ragionare con Tutti.
Altrove i vivi vengono raggiunti dai sotterrati, o qui (pp. 23-24, 25) dissotterrati, attraverso la lingua.
Un punto culminante potrebbe essere la poesia-omaggio a Sylvia Plath, omaggio non esplicito, ma avvertito come tale da chi scrive. E’ ancora la natura vegetale che va incontro all’uomo. Si vedano le rose aggressive in bocciolo, la loro esplosione in ospedale… E anche l’incontro tra esseri umani è descritto come una fusione tra elementi naturali, come nell’amore, quasi come una fusione cosmica: «ed era proprio nuova la vita vecchia / quando ci siamo stretti per farle un brindisi / e si sono strappati il sentimento e i sensi / e il cielo era tutto sborrato di stelle» (p. 48).

Edoardo Zuccato, I bosch di Celti, Sartorio, Pavia, 2008, p. 76, 10.00 €.