Forme di materia: la scrittura oltre la rappresentazione
di Tommaso Ottonieri

Ero a festeggiare il museo della carne, io come tantissimi, un oceano di facce in attesa, nel mezzo di settembre, non più di tre settimane da adesso che scrivo; tra gli scoscendimenti del rione Avvocata, nel ventre discenditivo di Napoli. Fra le obliquità di questo palazzo incantato, ex centrale elettrica incastonata nel centrocittà, vetrate e terrazzamenti spalancati sui Quartieri, che precipitano, sta a custodirsi da adesso (per reinvenzione di Peppe Morra), piano su piano, il più (ir)rituale degli spazi espositivi: la permanente dell’opera di sangue di Hermann Nitsch. E a poche centinaia di metri (in linea d’aria) dai circuiti sanguigni vetrificati per gli horror-alchimismi di Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, a poche altre ancora dai venerati ossari ex-voto di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco o del Cimitero delle Fontanelle, o dal Duomo stesso ove si serba il sangue miracolante di San Gennaro in ampolla, che ogni anno, giusto a settembre, largisce o nega lo spandersi della sua liquefazione, i raggrumati manufatti organici dell’azionista viennese, e i video delle fluide scarnificazioni performate, s’installano di forza al cuore del mito occulto, infero o purgatoriale, d’una città così barocca, così voodoo. Sacralità dell’orrore; non troppo distante, diciamo, dal colonnello Kurz di F.F.Coppola, e di J.Conrad.

Ecco; sono questi passaggi (o passages, chissà, secondo il Baudelaire di W.Benjamin) dentro il pullulare d’una postremità organica oscura, così carica di sensi e di declini, non smettono di interrogarmi circa la qualità del realismo a cui è possibile mirare, nella plasmazione d’un artefatto (segno capace di farsi concretezza di opera). O quanto meno, del reale da trattenere, entro le reti di un artistico fare.

Le avanguardie e postavanguardie artistiche, coi loro “ritorni del reale” (Hal Foster) altrimenti rimosso, ci hanno posto l’esistere d’una realtà che si consuma nell’atto stesso della sua enunciazione. Nel senso, almeno, che coincide con essa. Dove enunciare, produrre opera, vuol dire consumare, nell’atto stesso, brani di reale.

A dire il vero, le arti concrete, tutte, possiedono una materia che inerisce già al loro linguaggio. C’è spessore, tattilità, matericità, sopra la superficie della tela, dentro il tubetto del colore, nel legno o nella pietra o nella plastica, nell’onda sonora che si propaga e flette, nei corpi che scintillano sulla scena per voce o per danza, la luce stessa che attraversa una pellicola o che si propaga in un tempestìo di pixel… E tanto più allora se la materia con cui si crea coincide con la materia che si crea; come nel caso di un Nitsch: carne e sangue veri, che già furono vivi, trascesi in un’idea astratta e ben più cruda e nuda della carne, del sangue; il realismo, nelle letteralizzazioni della scena contemporanea, si realizza per così dire senza mediazioni, senza altro segno che non sia l’elemento. Ma proprio nella retorica di questo riverberarsi (la materia che “sta” per la materia; la carne che è insieme linguaggio e oggetto, significante e significato), quel che era apparso come Realtà, irrimediabile, irredimibile Realtà, senza più vie di fuga, e rovinoso crollo di qualsiasi doppio fondo metaforico, sembra assumere una imprevista valenza trascenditiva. La materia diviene quella d’un opus alchemico che la converte, la lascia scivolare in Altro. L’aura, già decaduta, si reinstaura sia pure come biodegradata, colta a uno stato avanzato di putrefazione: deperibilità d’un organico temporaneamente eternato in Opera.

Questo per le arti concrete. E con la loro più letterale realizzazione, che può avvenire in accessi a un grado zero materico, come quello (all’estremo) di cui parlavo; aperture che costringono a passare, dal livello della contemplazione o della fruizione, proprio, a quello del Contatto. Ma allora, cosa avviene quando un’arte rappresentativa, come è la letteratura, un’arte insomma forzata alla rappresentazione anzi addirittura alla rappresentanza (d’un reale che si svolge, si è già svolto altrove), un’arte racchiusa interamente in un codice assolutamente artificiale (la Lingua) e la cui condizione è non altro che l’immateriale il virtuale (l’immagine mentale, perlopiù prodotta in un silenzio), intenda presentare, direttamente, senza filtri e quasi senza codice? azzerando, cioè, quel codice-lingua che è la sola condizione che la rende possibile?

C’è nel linguaggio un’alchimia, di nuovo, da trovare, lo notava un semiologo famoso (Metz): un’alchimia in grado di bucare il codice, una chiave capace di aprire il linguaggio, e restituire, senza più filtri, la materia. Non più: rifletterla; ma semplicemente: produrla. È un’apertura paradossale e all’apparenza impossibile; eppure, solo la parola, quando è autentica, riesce a produrla. A dare accesso, senza filtri, a una realtà che si plasma direttamente nella lingua. È per questo foro che passa l’unico realismo capace davvero di investirci. Forma di reale. Tutto il resto, non è che traduzione.

 

 

 

Pubblicato su “Specchio +” Novembre 08, all’interno di un’indagine sul realismo curata da Andrea Cortellessa e di cui è possibile leggere qui l’inserto completo