Только деревья (Solo alberi)
di Alexandra Petrova

Presentiamo alcuni testi tratti dell’ultima raccolta poetica di Alexandra Petrova – Только Деревья (Solo Alberi), pubblicata in Russia nel 2008 – anticipati da una breve introduzione di Elisa Alicudi. Un’analoga selezione è uscita nella rivista “Poesia” del maggio 2009 e nella versione online de “L’Ospite ingrato”.


La febbre luminosa dello sguardo

L’itinerario poetico di Alexandra Petrova conduce in un orizzonte vario e imprevedibile, in luoghi concreti, seppur privi di toponomastica: in un parco, in metropolitana, nei territori di guerra o accanto al volo degli uccelli. “La sua poesia registra le impressioni di un mondo in continuo cambiamento, senza conferirgli la fissa identità dei nomi propri, infatti, ad eccezione di alcune poesie nelle quali è menzionata l’Italia o le città italiane, compaiono relativamente pochi nomi di luoghi” (S.Sandler in Alexandra Petrova, Tol’ko Derev’ja, NLO, Mosca 2008).

Nell’incessante percorso si finisce per cader vittima di movimenti tellurici che provocano ferite particolari, interne al corpo e alla terra: è la separazione dell’io lirico da un luogo interiore, dai propri segni di riconoscimento.  Le metamorfosi che ne conseguono  sono dolorose, ma rappresentano l’unica forma di sopravvivenza dell’io lirico, trasformano in erba, uccello, uomo o donna. L’autore dunque attraversa luoghi esterni, spazi interiori e arriva perfino a moltiplicare una singola identità in molte contemporaneamente: “Non sei sola, non temere,/ tu sei con tutti quelli che hai mangiato,/ il cui latte ti ha nutrita,/ le loro molecole sono diventate te,/ tanto che di te sola non è rimasto niente.”

Lo sguardo introduce in un mondo di continui passaggi, nel mondo della fenice, nel mondo del poeta reduce di una biografia itinerante, S. Pietroburgo, Mosca, Gerusalemme, poi Roma, ma soprattutto di un poeta che attraversa molteplici trasformazioni e identità. Ed è proprio la migrazione dei punti di vista che fa di Alexandra Petrova il “poeta degli addii” (S. Sandler, “Prefazione”, in Alexandra Petrova, Altri Fuochi, Crocetti, Milano 2005) e della sua arte anche un’arte del distacco, dal momento che approdare ad una nuova dimensione implica inevitabilmente abbandonarne una precedente. Il tono elegiaco si alterna ad un sentimento tormentato e nero, allo squarciarsi e al separarsi da sé per superare il dolore, causato dall’evento ormai passato, per approdare alla sublimazione in forma di ricordo. “Radunatevi, uccelli, mangiate/ la carne delle cosce, i polpacci, le natiche./ A volte è necessario separarsi da se stessi,/ per uscire vivi dalla trappola.”

Acquisita la posizione distaccata, che è sempre temporanea attesa di trasformazione, il poeta può osservare il mondo con uno sguardo irriverente. Lo sguardo che non teme d’esser ricambiato, perché si è “nudi come l’acqua”, non teme il confronto, ma crede nella possibilità di utilizzare la propria parola per indagare, chiedere, cercare e anche rimproverare, se necessario, perfino Dio. “Signor Dio, / non so, ma ultimamente/ la vita è una continua bua;/ e poi  il tuo film gira un po’ troppo veloce.”

Irriverente è l’inclinazione ironica, con la quale viene scandagliato l’essere umano senza eccezioni di sorta. La schiera di esseri umani fallibili, pavidi, a volte goffi non viene condannata, ma viene accettata e presentata proprio tramite un’ironia sottile e filosofica, quella che Pirandello definisce come il prendere in giro non quel che si dice, ma quel che si fa. “Hai mangiato capperi e datteri, carne argentina, aragoste e pasticci di alici/ beh, Claudio, non puoi mica considerarti  infelice./ Ricordi come ti scatenavi con l’hip-hop al Testaccio?/ Ti hanno licenziato e allora? La libertà non è un cappotto, non si consuma,/ à propos, hai visto il mio? Ecco –  vedi –  non piango!”

Alexandra Petrova penetra con curiosità tra la folla e con estrema libertà sceglie il punto di vista dell’uno o dell’altro, ma molto più frequentemente si veste dello sguardo degli emarginati, degli emigrati, dei vagabondi, barboni o nomadi. Ci consegna uno sguardo più potente di ogni retorica dell’odierno stare al mondo e dello starci sapendo quale e quanta provvisorietà sia la cifra esatta che ci appartiene.

Elisa Alicudi


* * * *

Alexandra Petrova

da Только деревья, NLO, Mosca 2008


1.

Pastore delle cose,
non eri tu che sapevi  guardare
in volto gli oggetti celati?
E ora?
Piangi orizzontalmente.
Allo zio silenzio spuntano i baffi dell’oscurità,
e un ragazzo di un’invisa bellezza
fa capolino alla porta.

Tutto si è disperso ora,
non risponde al proprio nome,
non si raduna al suono del pastore.

Ascolta, Sašenka, novizio,
non è forse meglio lasciarsi pascolare
dalle cose disgiunte, come prima
le pascolavi tu stesso?

2.

Pensi di esserti appoggiato a caso,
invece  è il limite.

La scuola della logica è scomposta fino alle fibre di paglia:
ecco, fluttuano nell’acqua,
riderai da morire.

Il paesaggio lontano inesorabile ti cresce incontro,
entra di taglio.

Perdona, se non ti rispondo,

non sono rimaste parole. Solo alberi in me risuonano.

3.

Hai mangiato capperi e datteri, carne argentina, aragoste e pasticci di alici,
be’, Claudio, non puoi mica considerarti infelice.
Ricordi come ti scatenavi con l’hip-hop al Testaccio?
Ti hanno licenziato e allora? La libertà non è un cappotto, non si consuma,
à propos, hai visto il mio? Ecco – vedi – non piango!

E poi mi hanno detto che Claudio non è più abituato a volare.
È triste, ragazzo, ma non è questo il punto.
Dunque, essendo più grande ed anche economo
propongo:
si può, abbracciandoci stretti, correre gratis a letto,
o andare, come faceva Flavio, sempre a piedi.
Anche se poi i dritti li beccano solo sul 64.
Sai? Lì rubano pure.
Ma che se ne fanno di noi?
Per fino Nello l’orfanello nasconde in petto un coltello,
mentre noi siamo nudi come l’acqua.

Sì, la pioggia, dici, la pioggia…
Ma è meglio così, Claudio, sai che non ce la faccio più a scendere alla fontana,
a meno che dalla cannella non sgorghi il vino della nostra vicina Frascati.

4.

«Signor Dio, –
non so, ma ultimamente
la vita è una continua bua;
e poi il tuo film gira un po’ troppo veloce.
Non si riesce a star dietro al successo dei vicini,
figuriamoci andare in chiesa
a pregarti.
E ancora: l’immagine non fa che restringersi,
la pellicola brucia spesso,
in teoria, mi dico, se mi trovassi lì dentro
spalancherei  le porte e demolirei le tue pareti,
ma poi mi sento impaurita,
e voglio uscire».

«Sì,  è vero – continuò lui –
tu corri troppo.
Il corpo di mia moglie era elastico, come un pallone,
e ora ci si sente
soltanto inutili a letto.
Tu che sei un uomo, queste cose le capisci».

«Lui non c’è, – dissero i bambini –
tutto è solo un gioco,
una corsa sudata sulla distanza
tra il c’è e il potrebbe esserci,
zia Mimma è morta colpita da un’accetta
che il marito le piantò in fronte,
mentre avrebbe potuto ogni sabato, come prima,
ballare la rumba in palestra
e spassarsela fino al mattino.

La va. Ma poi  la spacca.
Tutto secondo i piani della nostra comune penuria.
Nell’attesa del miracolo, certo, del margine di errore
e nella speranza che il vicino
cada nella latrina da lui stesso scavata, per primo.
Ma i nostri fratelli minori non scelgono il loro destino.
Le femmine dell’acaro escono già incinte dal ventre,
dove si  uniscono al  fratellino,
divorando le viscere  materne per venire prima alla luce.
Però è meglio crepare di accetta
che farsi la sorella.

Essere fatti di materia è chiaramente più stupido
che guardarla  correre,
inciampare e diventare
per qualcuno uno spettacolo divertente.

Signor Dio,
dai  il via alla festa delle oziosità!
Hai fifa della morte della mortalità?»

Lui, che forse li ascoltava, nell’oscurità  taceva sdraiato,
diffondendo ombre e luci sul soffitto,
e le lacrime, pioggia fredda,
scendevano a picco sul viso,
confermando le previsioni meteo
di una crescente umidità.

5.

Non sei sola, non temere,
tu sei con tutti quelli che hai mangiato,
il cui latte ti ha nutrita,
le loro molecole sono diventate te,
tanto che di te sola non è rimasto niente.

L’utero è spazioso e ordinato,
lì i bimbetti, seduti sette per panca,
afferrano i semi per la coda e li infilzano con gli spilli.

Tu sei tutti quelli passati per seminare,
tutte le parole che ti hanno detto,
tutte le foglie cadute in autunno,
tutti i boccioli esplosi, e le bottiglie
che sparavano uragani di «vale!».

Lassù, gli splendenti chiodi delle galassie sono tanti
quante in te le avviate pratiche condominiali
e come alto burocrate *
sentirai un giorno in te la forza
dell’erba paziente, della belva intrepida
e del pavido uomo, che a volte chiamano immortale.

*In originale “il presidente dello Žek”. Lo Žek (ЖЭК жилищно-эксплуатационная контора) in URSS era il comitato per la gestione degli immobili  statali.

6.

In una piccola chiesa sedevano bambini-barboni,
visini- ciclamini, pieni di pidocchi.
Si grattavano e aguzzavano la vista per rubacchiare.
Vadano al diavolo, via, sciò.
I cavoli non si mangiano a merenda.

Qui da noi c’è l’argento, i candelabri, i calici,
c’è chi viene per piangere, chi per pregare,
mentre il bastardo senza terra dall’orlo del suo precipizio infuocato
chiede di saziarsi, di dissetarsi
di essere

7.

oltre l’orizzonte di quel ponte,
dove tutto è disposto con garbo,
erba, dammi la forza dell’erba,
e mi dico: lancio la sfida.
è giunta l’ora, mi dico,
non è forse così?
Ecco che il vento solleva una logora bandiera di foglie.
Alzati, mi dico, disperati, e se vuoi, muori.
Solo, per favore, non tacere, ora, parla.
Nuova,
questa sarà una vita nuova
là, oltre il ponte,
lungo il ponte,
non torneremo più qua,
te lo prometto,
erba,
non più
n

8.

Radunatevi, uccelli, mangiate
la carne delle cosce, i polpacci, le natiche.
A volte è necessario separarsi da se stessi
per uscire vivi dalla trappola.
Che le parti recise si contorcano pure dal dolore,
tu stringi più forte la fascia.

Ho amato qui. Il melo, piantato tempo fa,
è tutto in fiore, ronza di una moltitudine di calabroni.
Ecco, entravo in questa casa. E in quella vicina.
Aspettavo sulla scalinata. Qui la pioggia mi sorprese.
Qui il labbro tremava per l’offesa.
Qui ci eravamo baciati. Senza fine, soffocandoci.

Ero qui e ascoltavo risuonare
la musica e le risa da una finestra buia.
E ora portate, uccelli, quello che vi è rimasto,
lontano, oltre i paesi lontani.
Forse qui, dalle vostre feci,
cadrà un qualche seme,
dove c’è anche una parte di me.

9.

Mi aggiro sull’isola stregata.
Per caso sospinti qui quattro
cinque, sei, non ricordo, anni.
Li traduco con il vocabolario,
ma i dadi delle lettere si spargono sulla sabbia,
si frantumano nel fraseggio fuggente saturnino.

Il sole estraneo lavora con il bulino le rughe.
Non riconoscerai chi è nell’acqua,
dove il viso oscuro di ginandro
si increspa, in nessun luogo dileguando.

Mi sono persa nel mezzo degli anni
tra le parole squamo-volanti antiche
tra lingue-cloni e chimere.
Solo da qualche parte una voce lontana di parola-fratello
nel bosco delle ombre oblique
mi schiude la porta.

Impigliandosi tra i rami, così lentamente, con una mappa sonora
lo stormo degli uccelli liberi – le prime parole si infiltreranno fino a me.
E anche quelle che un ragazzo ha scolpito su un banco,
infiggendo con una freccia un ovale semilunare.

10.

Il sogno s’interrompe allo sciogliersi dei sogni.
Ma la mattina punterà il proiettore dell’estate,
Alla coscienza farà luce sull’azzurro delle vene:
dei fianchi, delle gambe, della spalla alzata.

Attraverso le feritoie delle imposte
irromperà sul raggio appuntito lo stato delle cose.

Lo strato si assottiglia sempre di più.
A me, questo rombo dentro di me, che ci fa.
Si assottiglia come se nessuno lo notasse,
mentre tu sei indaffarato attorno al trapano caldo:
a forare i passaggi nelle trappole degli ideali.

Dai balconi battono le coperte.
L’inverno, impolverando, è rimasto alle iniziali,
tracciate nel traspirare, nell’evaporare,
sotto la respirazione, sui vetri oscuri,
sul vento di dicembre.

La polvere dell’epitelio, polline, vola: lastre di mica verso luglio,
le squame di quelli che amavo,
amo

* * * *

1.

Пастух вещей,
не ты ль умел глядеть
в лицо предметов затаённых?
А что теперь?
Горизонтально плачешь.
У тётки тишины растут усищи тьмы,
а в дверь заглядывает мальчик
едва ль желательной красы.

Всё разбрелось теперь,
не откликается на имена,
и не собрать рожком пастушьим.

Послушай, Сашенька, послушник,
не лучше ли разрозненным вещам
отдать пасти себя, как прежде
пас их сам?

2.

Думаешь, прислонился наугад,
а оказалось — урочище.

Школа логики распущена до лыковых жгутов:
вот они плывут в воде, обхохочешься.

Пейзаж вдали неумолимо растёт навстречу,
входит в тебя плашмя.

Прости, если больше тебе не отвечу,

cлов не осталось. Только деревья во мне шумят.

3.

Финики-пряники ел, аргентинское мясо, лангустов и чёрные сливы,
вот уж, Клавдий, не назовёшь тебя несчастливым.
Помнишь, как хип-хоп отплясывал на Тестаччо?
Ну и что, что уволили? Воля-то не пальто, ведь не сносится,
à propos, ты видел моё? Ну вот, и не плачу!

А ещё мне сказали, что Клавдий оставил привычку летать.
Это грустно, мальчик, но я не о том.
Вот, как старший и как эконом,
предлагаю:
можно, обнявшись покрепче, бесплатно бежать в кровати,
а уж если ходить, то как Флавий — только пешком.
Впрочем, зайцев стреляют лишь в шестьдесят четвёртом и в шестьдесят втором.
Там и воруют, кстати.
Но с нас-то с тобой что возьмёшь?
Вот у Федотки-сиротки и то за пазухой нож,
а мы с тобой голые, как вода.

Да, дождь, говоришь, дождь…
Ну и к лучшему это, ведь к фонтану мне, Клавдий, спускаться уже невтерпёж,
если из крана, конечно, не хлещетвино из соседнего нам Фраскати.

4.

«Господин Бог,
что-то последнее время
жизнь — сплошное бо-бо,
да к тому ж как-то быстро ты крутишь своё кино.
Не успеешь поспеть за успехом соседей,
не то что в церковь сходить —
тебе помолиться.
И ещё: изображенье всё время мельчает,
плёнка часто горит,
в принципе, думаешь, вот бы и мне оказаться внутри,
я бы выбила двери и стены твои снесла,
но потом мне страшно,
и хочу назад».

«Да, — подхватил он, —
ты слишком, пожалуй, спешишь.
Тело жены моей было упругим, как мяч,
ну, а теперь себя чувствуешь лишь
лишним в постели.
Ты же мужик, уж такое-то можешь понять».

«Нет его, — дети сказали. —
Всё только игра,
потный бег на дистанцию
между есть и могло б,
тётя Римма погибла от топора,
потому что ей муж засадил его в лоб,
а могла б по субботам, как раньше,
в спортзале румбу плясать
и гулять до утра.

Был пан. А потом пропал,
Всё — по плану всеобщей нашей сермяжности.
В ожидании чуда, конечно, погрешности
и надежды на то, что сосед
первым свалится в вырытый им клозет.
А у братьев наших меньших и выбора нет.
Самки выходят беременными из клещихиного нутра,
в нём познавая братца
и разъедая чрево мамаши, чтобы выйти скорей на свет.
Лучше уж, право же, сдохнуть от топора,
чем вот так вот с сестрой сношаться.

Быть материей — это явно глупей,
чем смотреть, как она бежит,
спотыкается и представляет
для кого-то потешный вид.

Синьор Бог,
даёшь праздник праздности!
Слабо смерть смертности?»

Тот же, который, возможно, их слушал, лежал в темноте и молчал,
тени и свет распуская по потолку,
и слёзы холодным отвесным дождём
текли по лицу,
подтверждая прогнозы синоптиков
о возрастающей влажности.

5.

Ты не одна, не бойся,
ты — со всеми теми, кого ты съела,
чьим молоком питалась,
их молекулы стали тобою,
так что тебя, самой по себе, не осталось.

В матке прибрано и просторно,
там дитяти, семь штук, — по лавкам,
семена за хвосты хватают и накалывают на булавки.

Ты — все те, кто в тебя заходил посеять,
все слова, что тебе сказали,
вся листва, что по осени опадала,
и бутоны, что лопались, и бутылки,
что выстреливали ураганом «vale!»

Наверху — блестящих гвоздей галактик
столько же, сколько в тебе заведённых жилищных практик.
И как председатель этого ЖЭКа
ты почувствуешь волю в себе однажды
терпеливой травы, бесстрашного зверя
и пугливого, но порою, говорят, бессмертного человека.

6.

В маленькой церкви сидели дети бомжей,
личики-лютики, полные вшей.
Чесались, присматривались, что бы подтибрить.
А ну их, ату их, взашей.
Не пришей хвост кобыле.

Тут у нас — серебро, канделябры, потиры,
кому поплакать, кому помолиться,
а чужеродный ублюдок на краю своей огненной пропасти
просит наесться, напиться,
быть

7.

за горизонтом того моста,
где всё устроено неспроста,
трава, дай мне силу травы,
и я скажу себе: я иду на вы.
Пора, я скажу себе,
разве это не так?
Вот и ветер подхватит листьев потраченный флаг.
Встань, я скажу себе, отчайся и, если хочешь, умри.
Только, пожалуйста, не молчи теперь, говори.
Это новая,
это будет новая жизнь,
там, за мостом,
через мост,
мы не вернёмся больше сюда,
я обещаю тебе,
трава,
никогда,
ни

8.

Налетайте, ешьте, птицы,
мясо ляжек, икр моих и бёдер.
Иногда приходится с самим собой расстаться,
чтоб уйти живым из западни.
Пусть отрезанные части болью сводит,
ты тряпицу туже затяни.

Я любил здесь. Яблоня, что посадил когда-то,
вся в цветах, гудит от множества шмелей.
Я входил вот в этот дом. И в тот, соседний.
У парадной ждал. Здесь дождь меня застиг.
Здесь губа дрожала от обиды.
Здесь мы целовались. Без конца, взахлёб.

Здесь стоял и слушал, как звучали
музыка и смех из тёмного окна.
А теперь несите, птицы, то, что вам осталось,
далеко, за дальние края.
Может быть, из вашего помёта
упадёт сюда какое семя,
где есть тоже часть меня.

9.

По колдовскому острову брожу.
Случайно вынесло сюда четыре,
пять, шесть, я не помню, лет.

Я их перевожу со словарем,
но кости букв ссыпаются в песок,
дробясь в сатурновый неуловимый слог.

Чужое солнце проведет резцом морщины,
ты не узнаешь, кто это в воде,
где темное лицо женомужчины
рябит, рассеиваясь в нигде.

Я заблудилась в середине лет,
средь древних слов чешуйчато-крылатых
средь лингвоклонов и химер.

Лишь дальний голос слово-брата
в лесу косых лучей
мне приоткроет дверь.

Запутываясь в ветвях, так медленно, по звуко-карте,
-косяк свободных птиц – ко мне пробьются первые слова,
и те, что мальчик вырезал на парте
и заключил в ущербленный овал.

10.

Сон нарушается разгадываньем снов.
Но утро наведет прожектор лета,
сознанью высветит голубизну прожилок:
на бедрах, на ногах, приподнятом плече.

Сквозь амбразуру ставень ход вещей
ворвется на отточенном луче.

Слой утончается.
Мне этот гул во мне, зачем.
Он утончается как будто незаметно,
пока ты занят у горячей дрели –
сверлить ходы в ловушках идеалов.

С балконов выбивают одеяла.
Зима, пылясь, осталась в инициалах,
прочерченных в испарине, в пару,
под паром дыхания, на темных стеклах,
декабрьском ветру.

Пыль эпителия, пыльцы, слюдой летит в июль,
чешуйки тех, кого любил,
люблю.

Traduzioni di Elisa Alicudi e Alexandra Petrova

Le poesie n.9 e n.10 sono state tradotte da Pietro Alessandrini