Perché gli scrittori del Nordest non parlano della vita in fabbrica?
di Emanuele Tonon

Da quando ho cominciato a scrivere con coscienza di quanto andavo facendo, mi sono posto una domanda semplice, a livello di tematica, contenutistico: perché gli scrittori che possono essere geograficamente inquadrati come appartenenti per nascita o vita al cosiddetto Nordest (con l’ovvia semplificazione racchiusa in questo termine) non affrontano esplicitamente la tematica del mondo operaio, della vita di fabbrica? Mi domandavo, e tuttora mi domando, il perché di questo lontananza contenutistica da una realtà che domina la vita di gran parte degli abitanti del Nordest. Il mio libro è ambientato in un Nordest estremo, dove la realtà industriale e artigianale è prevalentemente legata al mondo della sedia, al legno.

Lasciando volutamente da parte gli scrittori che hanno raccontato la civiltà contadina, pure la fine di quella civiltà, mi concentro sugli scrittori che possono essere annoverati nella labile categoria dei “giovani”, diciamo quella sogli ideale che arriva ai 45 anni. Ecco, mi pare che oltre a me, solo Massimiliano Santarossa abbia tentato un simile approccio.Sia chiaro: non intendo dire che si debba fare letteratura con la sociologia e l’attualità. Raccontare, oggi, il mondo della fabbrica, non significa essere attuali. Io non intendo attuare un approccio giornalistico, da pura denuncia, senza operare sullo specifico letterario con un linguaggio e una tensione formale.

Quindi, fatto salvo il voler restare nell’ambito letterario lasciando ad altri la cronaca giornalistica, mi pare di individuare in questa defezione una distanza proprio da quel mondo. Non sarà che gli impianti narrativi piccolo-medio-alto borghesi operati da molti scrittori del Nordest, siano proprio conseguenza di una mancata conoscenza, sul piano esistenziale, del mondo assurdo della fabbrica? Forse io e Santarossa riusciamo a dire quel mondo perché dentro quel mondo ci siamo stati e ci stiamo. Io ho scritto di quel che avviene dentro il capannone della fabbrica (non solo di quello, sia chiaro, ma non è questa la sede adatta per parlarne), Santarossa delle conseguenze di quelle nove ore quotidiane sacrificate alla fabbrica. Quello che ci contraddistingue, quindi, dai tentativi di raccontare la vita operaria è l’appartenenza esistenziale a questo mondo. Penso ad opere magistrali come Memoriale di Volponi o La Linea Gotica di Ottieri. Ma quelle erano voci “esterne”, voci di intellettuali puri che raccontavano quel mondo. Io e Santarossa quel mondo lo raccontiamo a partire dall’esperienza diretta, per farne, come credo e spero, letteratura. E forse questo rende le nostre voci più aspre, urticanti.

Il Nordest Friulano è territorio del tutto particolare: qui ricchezza è povertà sono mescolate ovunque. Quasi non esiste una periferia pura. Le ville dei piccoli e grandi industriali sono affiancate ai condomini, alle casette degli operai. Si apre la finestra e si vede la villa del padrone. Si sogna la vita del padrone. Si accetta una condizione di pura sopravvivenza perché si aspira alla straordinaria ordinarietà della Ferrari che esce dal cancello del padrone, a dieci metri dalla tua casa popolare. Mi viene in mente il “Discorso tipico dello schiavo” di Silvano Agosti, che mi permetto di riportare in parte:

«Uno degli aspetti più micidiale dell’attuale cultura, è di far credere che sia l’unica cultura.. invece è semplicemente la peggiore.

Bèh gli esempi sono nel cuore di ognuno.. per esempio il fatto che la gente vada a lavorare sei giorni alla settimana è la cosa più pezzente che si possa immaginare.

Come si fa a rubare la vita agli esseri umani in cambio del cibo, del letto, della macchinetta..

Mentre fino ad ieri credevo che mi avessero fatto un piacere a darmi un lavoro, da oggi penso: “Pensa questi bastardi che mi stanno rubando l’unica vita che ho, perché non ne avrò un’altra, c’ho solo questa.. e loro mi fanno andare a lavorare 5 volte.. 6 giorni alla settimana e mi lasciano un miserabile giorno.. per fare cosa? come si fa in un giorno a costruire la vita?!”

Allora, intanto uno non deve mettere i fiorellini alla finestra della cella della quale è prigioniero perché sennò anche se un giorno la porta sarà aperta lui non vorrà uscire..

Deve sempre pensare, con una coscienza perfetta: “Questi stanno rubandomi la vita, in cambio di due milioni e mezzo al mese, bene che vada, mentre io sono un capolavoro il cui valore è inenarrabile”»

Ecco, mi domando il perché dell’assenza di questa tematica spesa nel fare letterario. Non credo sia questione da poco, questa, attiene alla vita e all’impossibilità di viverla almeno con un’approssimazione di pienezza e non mi sembra cosa da relegare solo al reportage giornalistico. Abdicare, come scrittori, mi pare spocchioso, molto provinciale e italiano (mentre si osanna tutta la letteratura anglo americana che queste tematiche le affronta, eccome).

Voglio spendere ancora qualche parola sui linguaggi adoperati, per dire questo mondo. Da quello che mi pare di capire, sia nel mio caso che in quello di Santarossa, sento un fastidio, da parte di qualcuno, per la trivialità del linguaggio, per la visceralità. Penso che queste parole del Manganelli possano essere utili, in un tentativo di comprensione: «Bisogna arrivare a parlare di cultura come si parla di figa: diciamolo chiaro, se la cultura, se il pensare, non è vitale, se non impegna proprio le viscere (e non metaforicamente, perché il pensare è cosa totale come il morire, è un “fatto”, un vero e tangibile oggetto), se non ha anche addosso qualcosa di sporco, di fastidioso, di disgustoso, come è di tutto ciò che appartiene ai visceri, se non è tutto questo, non è che vizio, o malattia, o addobbo: cose di cui è bene o anche necessario e onesto liberarsi (spogliarsi) totalmente». [scritto da Giorgio Manganelli il 25 ottobre 1952 nei suoi quaderni di “Appunti critici”. Ora in “Riga 25”, Marcos y Marcos, Milano 2006, pag. 76]

da

http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/emanuele_tonon_noi_scrittori_nordest_la_fabbrica161209.html