Judith Thompson, Palace of the End
di Ade Zeno

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Come spesso capita dalle nostre parti, se non fosse per l’attenzione e l’intraprendenza di certa piccola editoria molti libri importanti e bellissimi non avrebbero alcuna possibilità di raggiungere anche il lettore meno pigro, né di poter offrire le proprie grazie a un pubblico magari non folto, ma almeno curioso, permeabile, e soprattutto non ancora del tutto arreso. Se, per esempio, la minuscola casa editrice aquilana Neo non avesse scelto di tradurre fra i primi titoli di un catalogo che ci auguriamo possa crescere e proliferare questo doloroso e sorprendente Palace of the End, la sua pur navigata, pluripremiata e attivissima autrice sarebbe ancora, almeno qui, una perfetta sconosciuta. Considerata una tra le voci più eminenti della drammaturgia canadese, Judith Thompson ha all’attivo una considerevole quantità di testi per teatro, cinema e televisione, eppure fino ad oggi non ne sapevamo nulla. E sarebbe stato davvero un peccato perdersi questo tanto breve quanto fulminante testo, intanto perché parla di tragedie che ci appartengono nel profondo, e in secondo luogo perché è scritto (e tradotto) con una forza e un’eleganza davvero rare. Articolato in tre monologhi distinti, Palace of the End mette in scena i corpi e le voci di personaggi realmente esistiti che nel nostro recente immaginario hanno già occupato dei posti di primo piano, soprattutto i primi due: Lynndie England – la soldatessa americana resa tristemente celebre dalle foto in cui veniva ritratta nell’atto di seviziare i prigionieri di Abu Ghraib – e David Kelly – il biologo inglese che, dopo aver dato prova dell’esistenza in Iraq delle famose armi di distruzione di massa, rivelò al mondo intero la falsità di tali prove, confermando così l’assurdità (o, se preferiamo, l’illegittimità) di una guerra organizzata a tavolino. Carnefici e vittime allo stesso tempo, la rozza Lynndie e il raffinato David (quest’ultimo, per inciso, si suicidò – o venne suicidato? – pochi giorni dopo la famigerata confessione) mettono sul piatto tutta la loro fragile drammaticità di esseri umani alle prese con una coscienza colma di rimorsi e con la consapevolezza di essere solo insignificanti pedine nelle mani di mostri insaziabili, cannibali, spietati: i padroni della Storia che divorano il mondo e vincono sempre trasformandolo giorno dopo giorno nel luogo inospitale che continua ad essere. Passano in rassegna i propri ricordi come se fossero allucinazioni, visioni grottesche, abbagli terribili, li masticano ad uno ad uno pur sapendo che non sarà possibile digerirli perché sono troppo feroci, troppo inimmaginabili. Così come lo sono gli incubi di Nehrjas Al Saffarh, l’attivista irachena torturata dalla polizia segreta di Saddam Hussein negli anni ’70, e uccisa  dai bombardamenti americani durante la prima guerra del Golfo. A lei, anzi al suo triste e dimesso fantasma, tocca rievocare gli orrori delle sevizie inflitte da un regime disumano, alle sue parole il compito di descrivere le geografie infere di una prigione senza vie d’uscita, proprio quel “Palazzo della Fine” annunciato dal titolo del libro. Tre sguardi opposti e trasversali sull’identica apocalisse, occhi che si incrociano su un palcoscenico desolato in cui la narrazione diventa specchio di anime in pena (le loro, le nostre) intrecciando in un unico magma verità e finzione, dimensioni che si sfiorano, stabiliscono un contatto, creano l’alchimia giusta per l’innesco di cortocircuiti emotivi. Straziante nella sua brutale sincerità, questo libriccino di incubi e sogni ha insomma proprio l’aspetto di una pietra tagliente, piccola, sì, ma preziosissima. Dovremmo tutti augurarci di poterla incontrare, prima o poi, malgrado il rischio di uscire un po’ più sgomenti, pessimisti, e pericolosamente feriti dal suo sanguinoso grido d’amore.