Boris Pasternak, Poesie
di Elisa Alicudi

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Il Verso di Boris Pasternak è movimento, minuzioso ingranaggio che conserva la propria eccezionalità nell’edizione Einaudi del 1957 – a cui si aggiungono 18 poesie nel 1959 -,  riproposta oggi per la prima volta nella prestigiosa ‘Bianca’. Va rilevato tuttavia che non sono stati emendati alcuni refusi delle stampe precedenti: il più evidente nella lirica Alba, a cui corrisponde un errato originale russo, la lirica Autunno, entrambe appartenenti al ciclo del Dottor Živago.

Il volume Poesie, con testo a fronte, ha il doppio pregio di essere la raccolta poetica più ampia presente in Italia e l’opera di un finissimo e straordinario traduttore, nonché saggista e poeta, Angelo Maria Ripellino. La sensibilità di Ripellino sembra colmare lo scarto, la perdita, la frattura tra testo tradotto e originale con maestria da intarsiatore, restituendo un linguaggio ‘naturalmente’ difficile, volumetrico, un caso di «cubismo poetico», come lui stesso lo definisce nell’introduzione. Indispensabile comprendere come la stessa operazione del traduttore abbia avuto una sua volumetria, sia passata attraverso l’osservazione della fisionomia, della mimica, dello sguardo di Pasternak, che Ripellino paragona a quello di Buster Keaton, «gli stessi occhi tristi sgranati: occhi attoniti».

L’esperienza estetica di Pasternak è legata alla visione. Sin dagli esordi, anche grazie alla vicinanza al cubofuturismo, e in particolare alle personalità di Chlebnikov e Majakovskij, Pasternak elabora metafore ardite, immagini scomposte e incompiute, come fossero misurate da un occhio artificiale, un triplo occhio che gli permette di osservare contemporaneamente ciò che è visibile a due persone: «l’immensa riva di Kobuleti» che «abbraccia come un poeta nel lavoro / ciò che in vita è visibile a due isolatamente: / ad un estremo la notturna Poti, / all’altro batumi che albeggia». Nel percorso poetico dell’autore le immagini arrivano ad animarsi di una potenza cinetica, diventano il prodotto di una tecnica filmica di narrazione.  Il procedimento è particolarmente evidente nei poemi L’anno Novecentocinque e Il luogotenente Schimdt, dedicati alle rivolte del 1905 e scritti alla fine degli anni Venti: «Marciapiedi di gente che fugge. / Si fa buio. / Il giorno non riesce a levarsi. / Al crepitio d’una scarica / risponde / un’altra scarica dalle barricate. / Ho quattordici anni./ […] / queste giornate sono come un diario. / Vi leggi, / aprendole a caso.» In altri casi, il montaggio alterna esterni ad interni, come nella poesia che dà il titolo all’ultima raccolta di versi, Quando il tempo  si rasserena, «Come se lo spazio della terra / fosse l’interno d’una cattedrale, / dalla finestra mi è dato sentire / a volte l’eco d’un coro lontano.» Il montaggio di Pasternak, al pari di quello di Ejzenstejn, tende ad essere connotativo, c’è, ad esempio, una ‘sensibilità metereologica’, quando il freddo, la neve, la tempesta o l’afa estiva diventano materia eloquente della condizione dell’individuo e degli avvenimenti storici. Sono presenti i paesaggi russi, la steppa, il bosco autunnale, il vento, i rondoni, come se esistesse sempre una lontananza dell’essere a cui aspirare, una ricerca che dal dettaglio si avventura verso il confine impenetrabile.

Un universo ricostruito all’interno di strutture formali ricercate: partiture fitte di rimandi fonetici, pause o ritmi incalzanti, rime inusuali. Gli intrecci sonori riproducono una musica elegante che riecheggia negli ambienti familiari, da camera, appunto, per pianoforte, strumento che rappresentò la sua prima vocazione artistica. La poesia di Pasternak oscilla tra una camera da presa e la musica da camera: un complesso gioco di campi lunghi (la storia e le vastità naturali) e d’intimità dei primi piani (l’individuo).  L’odore di terra si mescola alla tempesta, mentre il ritmo serrato della rivolta e il frastuono di rotaie compongono segmenti su segmenti linguistici, che sfumano perlustrando dettagli d’interni o sprigionando bagliori invernali. Come già affermava il poeta Gavril Deržavin alla fine del Settecento, il Verso russo diventa indispensabile strumento di mappatura del Suolo russo.

La natura, il paesaggio o la storia acquistano così un posto nell’immaginario del poeta, in quanto in esse si compie il destino dell’individuo ed in esse va cercata l’assenza o l’essenza della vita. Egli non separa la sorte dell’uomo dalla storia, né dalla natura, che costituiscono invece un organismo complesso, pulsante nei tessuti della poesia così come nelle splendide pagine del Dottor Živago. Mario Luzi ha riconosciuto all’autore un atteggiamento di grande dignità, proprio per l’inesauribile volontà di indagine dell’umano: «l’incessante ricerca della verità morale e artistica, senza vanità né indulgenze». Atteggiamento che Pasternak ha saldamente mantenuto anche all’interno del proprio percorso individuale, e che ha fissato, tra gli altri, nei seguenti versi: «E non devi recedere d’un solo / briciolo dalla tua persona umana, / ma essere vivo, nient’altro che vivo, / vivo e nient’altro sino alla fine».