Carmelo Samonà, Fratelli
di Ade Zeno

Ultimi superstiti di un’antica famiglia ormai dispersa chissà dove, i corpi equilibristi dei due fratelli che abitano il primo straordinario romanzo di Carmelo Samonà si aggirano per le stanze di un’immensa e desolata casa giocando una partita interminabile in cui non esistono vincitori né vinti, ma solo i riverberi delle loro mosse, l’eco ordinata di traiettorie invisibili, vagiti scomposti, parole senza suono. Due bambini vecchi, eppure non databili, forse nemmeno identificabili in fisionomie reali, perché la struttura alchemica di cui sono fatti oltrepassa i bordi di sagome definite e lascia il posto a dinamismi spaziali, geometrie eteree, paranoici salti nel buio. Claustrofobizzato e asfissiante, il labirinto di stanze che li avvolge si deforma allora in palcoscenico, un castello di carte in cui le carte sono specchi rotti, graffiati, invasi di riflessi che restituiscono allo sguardo dei loro attraversatori immagini in frantumi da ricomporre pezzo dopo pezzo. Tessere che prova disperatamente a mettere insieme il meno folle dei due, vale a dire il compilatore di questo memoriale minimo scelto per narrare le tappe che lo hanno condotto a prendersi cura del fratello infermo, minato da un irrequieto e profondo autismo. Pubblicato nel ’78, e riproposto dopo trent’anni da Sellerio, Fratelli segnò l’esordio narrativo di un celebre accademico – ispanista all’Università di Roma – che con questo fulminante titolo seppe svelare tardivamente (aveva già superato i cinquanta) la natura di uno scrittore raffinato, autentico e anomalo, rivelazione oltretutto confermata dal grande successo di critica e dall’altrettanto incoraggiante favore di pubblico che lo accompagnarono. Non fu narrativamente prolifico, Samonà, del resto morì, abbastanza prematuramente, una dozzina d’anni dopo. Di lui ci restano soltanto altri due romanzi (Il custode, Casa Landau), un testo teatrale (Ultimo seminario) e alcune prose ulteriori come Cinque sogni e L’esitazione. Quest’ultima, una novella di sedici pagine, viene qui ripresentata in coda al romanzo, quasi a creare un continuum, completamento ideale dell’identica strada consumata in Fratelli sull’onda della follia ribelle dei corpi, la stessa devastazione cerebrale che in entrambi i casi ammorba le sinapsi di scheletri in fuga. Ma l’insistenza sulle epifanie della pazzia nasconde evidentemente altro, un magma torbido che corre sotto la pelle della scrittura e si denuda di fronte agli esoterismi del linguaggio, alle zone opache in cui si annidano i sensi di colpa e, soprattutto, all’incapacità di esprimerli (a se stessi, agli altri) con parole umane. Privati di codici plausibili, i protagonisti di questi racconti si affannano nella ricerca del modo più efficace per organizzare un qualche tipo di contatto col mondo, senza però riuscire ad afferrarne la chiave fino in fondo, auto-condannandosi così a una irrevocabile condizione di isolamento e solitudine. La solitudine di chi ha smarrito il senso dei significanti e con esso la facoltà di relazionarsi all’anima delle cose attraverso le parole. Perché alla fine dei conti è di questo che parla Fratelli: delle infinite torture inflitte agli impotenti, molteplici cuori di uno scrittore.